In venti minuti i Mogwai danno vita, alterano e fanno decadere questa unica canzone dell'album, imponendosi garanti del loro post-rock emotivamente strumentale, caratterizzato da climax e alternarsi di quiete e tumulti.
"My Father My King" nasce da una melodia di una preghiera ebraica, adattata alle sonorità terse e distorte del gruppo scozzese: dal silenzio sorge un placido arpeggio di chitarra, al quale si aggrappano una seconda chitarra e una sorda batteria; pian piano il tono aumenta, sempre maggiormente ed è sempre la stessa melodia che scala l'inverosimile. Il pathos aumenta fino a quando la seconda chitarra non si infiamma, distorta e tutto diventa impetuoso, un fiume in piena ci travolge e ci troviamo al punto di partenza, col solito arpeggio distorto ma narcotizzato portatore di calma; quatti quatti ci si adagia nel silenzio, poi un'intermezzo di chitarra, afrodisiaco, che parte in sordina e si ritrova davanti un'altra montagna da scalare.
Il tutto si ripete, simile ma si ripete e ci ritroviamo ad annaspare nel solito fiume in piena; poi si alza il muro del suono, invalicabile; il brano afferma il suo momento più intenso: tre note che si ripetono, mattone su mattone, incrementando la struttura portante, fino a raggiungere la degenerazione; la scalata diventa stremante e persistente. Verso la fine pare che ogni strumento segua la propria strada accecato dalla stanchezza e dalla frustrazione. Un risucchio segna il termine: la puntina si incanta su un disco di ferro arrugginito e sono minuti di disturbi e rumori.
Questa prova penetrometrica dei Mogwai è distintiva del loro genere principalmente strumentale, racchiude la loro essenza: un crescendo di emozioni impetuose sempre pronte a precipitare per poi risalire più veementi di prima.
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