Guardo straniato la tastiera del mio computer, immersa in un cataclisma di fogli e di quadernetti sospesi tra il ludico di un ladro halfling che nasce lentamente ed i seriosi appunti di una tesina che prima o poi dovrà veder la luce. Mi gratto la testa, resto qualche secondo a pensare. Le stridule e vagamente irritanti note di “The Metamorphis Tango” mi sbattono in testa; il basso è una sorta di emicrania, le tastiere sono lugubri lamenti d’oltretomba. Passa qualche minuto. Fuori tira un po’ di vento, la giornata è fredda; la finestra è rivolta a nord e la mia stanza rimane in ombra. L’incedere rutilante da marcia scheletrica di “Boneyard Bunme” invade per un momento quest’antro, sferzato da una chitarra pungente e gelida come il vento del lago che spira poco distante.
Questa marcia verso “The First Monument”, sorta di altare – rosone di fuoco maligno - cui essi anelano, è una scalena rappresentazione ai limiti di un hard inquieto, non a caso proveniente dai bassifondi di una scena sotterranea. L’anno di grazia è il millenovecentosettantuno. I quattro demoni che dureranno per il tempo di un vinile sono i Monument, quattro nomi inventati dal sentore di macabro al servizio di una cupa atmosfera. Altri non sono che i misconosciuti Zior, in preda ad una folle notte etilica - così almeno raccontano nelle focose bettole che intrattengono le anime disperate nel loro viaggio lungo lo Stige.
I brani, accostati in genere ad un hard prog ed inevitabilmente underground, non si discostano tuttavia da una rigida forma canzone. Originali ed evocativi nel loro risuonare occulto, non scuotono tuttavia appieno i sensi, troppo gelidi certi suoni. Forse allora riescono nel loro intento. Risuona, urticante, questo canto sofferto proferito da voce distruttiva ed assecondato dalla spiritata chitarra di Wes Truvor, Sia esso per la ingombrante “Dog Man” (risuonante di Black Sabbath e francamente bella) o per la appiccicosa “State Flesh”, ove la ritmica incalza ed appoggia un organo cupo come un aberrante urlo in una caverna. La voce è dapprima uno squittio di ratto, poi è un ruggito da cerbero.
Stephen Lowe urla in preda ai fumi dell’alcol, le sue dita torturano l’organo che si lamenta con lunghi suoni sofferti. Se “Don’t Run Me Down” è una sorta di Rock ‘n’ roll infernale, “Give Me Life” assume a supplica, disperata nella sua leggerezza (ottimo arrangiamento: sanno suonare, questo è fuor di dubbio). Eppure, anche nei meandri del buio, giunge un refolo di amore: al “First Taste Of Love” la chitarra si ricorda di essere tale e regala alle anime perse qualche allegra linea di colore. L’organo non ne vuole tuttavia sapere e, mentre geme per le dita d'arpia che lo stritolano, il suo tiranno urla la sua sofferenza. Il basso pesante di Marve Fletcheley sorregge melodie sghembe, la chitarra è ora un refolo sottile: “And She Goes” risulta brano acerbo, agitato sussulto. Ora davvero è tenebra.
Viene finalmente un pianoforte a prendere la scena, inquietante e spettrale; la mano sinistra percorre scale e poi consuma i lugubri tasti gravi facendo vibrare le interiora, quella destra si agita impazzita nei vortici acuti di questa “Overture for limp piano in C”. Poi le mani si fermano. I lamenti oscuri interrompono il fremito d’avorio, la batteria di Jake Brewster li incalza con un’ossessione disadorna che sa quasi di scarafaggio (dicono ve ne fossero di famosi, in superficie). “I’m Coming Back”, dice il despota oscuro, pensando alle viscere della sua origine, gli occhi infuocati impercettibilmente umidi. Il corteo di scheletri si allontana: la sua aura malvagia ormai è solo un bagliore verdastro immerso nell’oscurità, laggiù nel profondo.
Fuori è uscito il Sole; esco. L’erba secca in molte zone del prato presenta mille tonalità di ocra, altrove mantiene un verde incerto e rassicurante. Cammino a piedi nudi, nella luce.
Carico i commenti... con calma