Un Ep. Una piccola raccolta di brani che in genere serve da antipasto alla scorpacciata futura di canzoni compiute, che nascono e si esauriscono in maniera più o meno veloce, a seconda che si tratti di un genere "facile" o "complesso". Questo non è il caso dei Moonsorrow. Questo Ep è un viaggio tra il vecchio e il nuovo del gruppo, che parte dalle riedizioni di canzoni già pubblicate nei loro demo d'esordio ("Taistelu Pohjolasta" e "Hvergelmir"), viaggia attraverso due cover ("For Whom the Bell Tolls" dei Metallica e "Back To North" dei Merciless"), e approda, infine, in una sinfonia maestosa di quasi trenta (trenta!) minuti: "Tulimyrsky" appunto.
Mai titolo fu più azzeccato per un disco come questo. Tulimyrsky. Tempesta di fuoco. Proprio quella si attraversa tra i solchi e le note di questo colosso vichingo.
Quì c'è il mormorare e il frangersi dei flutti del mare del nord, quì c'è la forza e la tragedia di un'epica non compromessa da nessuno svilimento commerciale: forza e fierezza. Ma anche gelo, neve, ghiaccio e nostalgia. Il tutto dato in una formula che sempre più porta il marchio di questa band che, per quanto riguarda il genere "Viking" sta reinventando e reimpostando tutte le regole; dimostrando che non è solamente cedendo alla melodicità adibita ad uso e consumo veloce, che si possono comporre ottimi album.
Quì il Black Metal più oscuro, oltranzista e primordiale si veste dei connotati di una eleganza stilistica tutta particolare, che trascende dalle radici antropologiche culturali dei paesi scandinavi, ma al tempo stesso ne è una derivata chiaramente riconoscibile, e che dota le composizioni, lunghe e prolisse, di un sentimento difficilmente replicabile e spiegabile. Solo ascoltando la musica dei Moonsorrow si riesce a capire la serie di legami, di congetture, di momenti tirati e tesi e di quelli più legati al folclore delle "Antiche Abitudini".
Tulimyrsky è un viaggio ho detto. Un viaggio che non finisce quando gli strumenti esalano l'ultima nota, ma continua piantandosi nella testa di chi ascolta, di chi sa andare oltre la voce raschiata e acida di Ville Sorvali, e ne sa ricavare il frutto di un'epopea fatta di sangue, di battaglie da far tremare la terra, di fiamme che lambiscono il cielo scuro arrossandolo e rendendolo una macchia lontana, che si consuma sulle vite di nerboruti guerrieri. Tutto in una canzone sola. Incredibile.
Poi ci sono le cover, e quelle sono un capitolo a parte. Chi riuscirebbe ad immaginarsi una canzone come quella dei Metallica riletta in chiave Viking e, per altro, pure eccellentemente eseguita? Solo dei pazzi. Come i Moonsorrow appunto. E poi una "Back To North" che più oscura e potente non si può chiedere, un gradino, ma impercettibile, sotto l'originale. Tutto si condensa sotto una valanga di ferro e di torpore, prima dati, poi strappati, poi ridati e poi ristrappati, in un balletto truce e crudele. Affascina e mozza il fiato continuamente questa canzone.
Forse, ma non vorrei peccare di presunzione, io mi trovo di fronte al disco dell'anno. Forse no. E' presto per dirlo. Di sicuro questo non è un lavoro che gli amanti del genere possono e devono lasciarsi scappare: quello sì sarebbe un peccato, e nemmeno veniale.
Chiudo ammorbandomi le orecchie degli assalti all'arma bianca di "Taistelu Pohjolasta" che fa comprendere bene quale sia il grado di maturità raggiunto dai Moonsorrow. La canzone è stata riscritta completamente in pratica. Delle grezze elucubrazioni primordiali che sprigionavano potenza e che strizzavano l'occhio al Black Metal, niente o quasi è rimasto. Niente tranne che l'attitudine. I suoni sono stati rielaborati e passati sotto la pressa di tastiere e campionatori che fanno parte dell'armamentario del gruppo di oggi, ma il nocciolo del brano è rimasto inalterato: la prepotenza, la ferocia e l'epica che crescono di pari passo con l'andare dei minuti e mai si fermano, fino a sentire quell'odore di ferro incandescente che si piazza nelle narici, e verso il finale, stravolge ogni cognizione lasciandola basita. "Hvergelmir", invece, se potesse s'inoltrerebbe verso lidi ancora più misteriosi ed oscuri, senza cedere di un millimetro alla coniugazione melodia-epicità-orecchiabilità. Eppure, anche se così non è, il trittico di cui parlo lo si avverte subito, ed è anche palese. Sembra avviluppato su se stesso, eppure c'è, forte e risoluto e presente. Sempre. Velato di urla lancinanti che lambiscono i contorni di un paesaggio gravido di sensazioni negative.
E' la fine del disco questa. La fine delle note che soccombono rumorose sotto un maglio che genera scintille che poi, condensandosi creano una palla di fuoco che tutto travolge, facendo sì che abbia inizio, nella testa di chi ascolta, la seconda parte dell'opera.
Straordinari.
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