Li aspettavano tutti al varco, i Morbid Angel. Esponenti della corrente più evocativa del death metal americano, da quell’Altars of Madness del 1989 non avevano sbagliato un colpo, partendo da un suono ancora molto debitore nei confronti del thrash fino ad arrivare ad un death riconoscibile e personale. Con lo storico David Vincent perso per strada, erano in molti a chiedersi chi avrebbe imbracciato il basso e si sarebbe piazzato dietro al microfono. Risultato, arriva tale Steve Tucker, nessuna esperienza di spessore alle spalle, ma il carisma e la voce necessari per non far rimpiangere l’illustre predecessore. C’è curiosità, ovvio, ma anche un po’ di diffidenza, perché uno come Vincent non lo sostituisci dalla sera alla mattina. Formulas Fatal to the Flesh, alla fine, arriva nei negozi a inizio ’98, grazie ai soliti tipi della Earache, e spiazza. Va bene, Tucker ha un growl che è un ruggito, è gutturale ai massimi livelli e si è tornati ad essere un trio perché Erik Rutan ha preferito dedicarsi ai suoi Hate Eternal, ma non è questo il punto. Formulas è un macigno, un treno sferragliante sparato a mille all’ora. Aspettarsi scopiazzature dei dischi precedenti sarebbe stato assurdo, ma qui davvero si pigia sull’acceleratore come mai prima. E il suono? Sporco, fangoso, cupissimo, praticamente lo-fi. Tranquilli, gli studi sono i Morrisound, non si è certo badato a spese.

A conti fatti Formulas è un disco in solitaria di Trey: il chitarrista scrive praticamente tutto lui e si improvvisa anche cantante. I Morbid Angel come band dalla vena spirituale, quasi intellettuale: leggere le liriche per credere. Basta con le blasfemie e le invettive superomiste dei vecchi tempi, qui il nuovo arrivato si ritrova ad invocare tutto il pantheon lovecraftiano e divinità mesopotamiche, con tanto di testi in sumero (!!). Humbaba, Anunna, Mummu, Asag, Ningishzida: vista la ricchezza della cultura mesopotamica Trey di certo non sarà stato a corto di ispirazione, visto che sono citati tutti. Le canzoni si elevano a vere e proprie preghiere, che spalancano le porte verso mondi altri: liberato da ogni sovrastruttura, l’Uomo è finalmente libero di esprimere tutto il proprio potenziale, elevandosi dalla propria mediocrità quotidiana. Le note del libretto parlano chiaro: degli inni a delle forze superiori, quindi, di cui essere strumenti in terra durante questa vita. Del resto, “the future of flesh is dust” (Prayer of Hatred): è tempo di riconoscere quanto siamo effimeri rispetto a quelle entità che davvero regolano le nostre esistenze. Quindi sì, siamo distanti anni luce dalle tante banalità pseudo-sataniche tipiche di certo metal estremo o dalle atmosfere da film slasher dei campioni di incassi Cannibal Corpse.

Il primo mattone di questo tempio del culto si chiama Heaving Earth: Tucker ci tiene a fare bella figura, Pete Sandoval ci ricorda il perché del soprannome “Commando” e Trey alterna riff marcissimi ad assoli melodici, apparentemente fuori contesto, ma che creano un effetto evocativo che ben si sposa con le atmosfere mistiche dell’album. La già citata Prayer of Hatred è un tributo agli Antichi del Solitario di Providence, impreziosita da rallentamenti doom che raggiungeranno l’apice due anni dopo con l’album Gateways to Annihilation. Bil Ur-Sag è uno scioglilingua in sumero, velocissima, mentre con Nothing is Not si tira finalmente il freno: un macigno sì, ma dalle inaspettate aperture melodiche. A proposito, quando sarà ormai fuori dai giochi, Steve Tucker si lamenterà apertamente dei testi voluti da Azagthoth, liriche scritte in una lingua impronunciabile, il tutto suonato alla massima velocità. Come dargli torto. Semplificare qualcosa? Non chiedetelo a Trey, la risposta è no. Al chitarrista saranno fischiate le orecchie. Se gli schiacciasassi Chambers of Dis e Umulamahri sembrano aggiungere poco, la sorpresa è Hellspawn, vecchio pezzo risalente ai tempi della militanza di Mike Browning, scritto subito prima che desse i natali ai suoi Nocturnus. Una scheggia impazzita che arriva dritto dagli anni Ottanta. Ottima brano anche Covenant of Death, di fatto un bignami dello stile eclettico di Formulas: velocità death e rallentamenti doom, momenti più ariosi e divagazioni strumentali, il tutto con Trey e Tucker che si dividono il microfono. Il vero capolavoro resta però Invocation of the Continual One, scritta quindici anni prima ma che raggiunge forma compiuta solo ora, una maratona di quasi dieci minuti, con Azagthoth sacerdote che evoca le più oscure divinità. Lasciano l’amaro in bocca certi passaggi un po’ a vuoto, come i brevi intermezzi in coda al disco, ma tant’è. Per il successivo tour, comunque, Erik Rutan tornerà ad affiancare Trey come ai tempi di Domination, andando a formare il quartetto che scriverà poi il successivo Gateways to Annihilation, l’ultimo grande album dei Morbid Angel.

In conclusione, Formulas Fatal to the Flesh è un capolavoro? Forse no, Altars of Madness e Covenant, per forza di cose, hanno certamente avuto un impatto maggiore, ma resta un lavoro di spessore e dalla forte personalità, ostico anche per un genere certamente di non facile ascolto come il death metal. Poco considerato all’epoca, con gli anni è stato rivalutato e riscoperto, anche grazie al rientro in formazione di Steve Tucker di qualche tempo fa. Un tassello importante all’interno di una discografia con pochissimi passi falsi.

Morbid Angel:

  • Steve Tucker, voce e basso
  • Trey Azagthoth, chitarre, tastiere e voce
  • Pete “Commando” Sandoval, batteria

Formulas Fatal to the Flesh:

  1. Heaving Earth
  2. Prayer of Hatred
  3. Bil Ur-Sag
  4. Nothing is Not
  5. Chambers of Dis
  6. Disturbance in the Great Slumber
  7. Umulamahri
  8. Hellspawn: The Rebirth
  9. Covenant of Death
  10. Hymn to a Gas Giant
  11. Invocation of the Continual One
  12. Ascent through the Spheres
  13. Hymnos Rituales de Guerra
  14. Trooper
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