Le visioni dei Mordred si intuiscono fin dalla copertina colorata, subliminale e futurista: "My vision is a part of me /My mind interprets all I see/ A perception of reality/ Create a world in which I see". Si intuiscono l'estremizzazione di suoni e di stile che porteranno a compimento in questo mini-LP, denso di novità, troppe a dire il vero, che tendono a disorientare l'ascoltatore: non per la lunghezza o complessità dei pezzi, ma per la frammentarietà dell'unione di vari humus sonici, toppe di pop quà e là e heavy rammendato col rap.

Se nel precedente LP "In This Life" il thrash era la base di partenza, rimanendo come servitore fedele nel maniero, pur con i suoi dovuti inchini al rap e al funk, in "Vision" è solo un'ingrediente che riaffiora pallidamente, timidamente, come se si vergonasse di partecipare alla festicciola: guarda le varie canzoni come un bambino impacciato esplora una casa sconosciuta, quando i genitori vanno a trovare gli amici e chiacchierano in salotto. I Mordred si trovano ad un bivio: estremizzare la formula collaudata con il precedente lavoro, oppure ritornare all'ovile Bay Area come nel debut album. Gli statunitensi optano per l'esilio del thrash nell'Oltretomba e la salita del funk nell'alto dei cieli californiani. Paradossalmente tutto questo avviene quando il singer Scott Holderby, da sempre agghindato da rapper from Frisco, completa la sua maturazione come paroliere e firma ben quattro pezzi del disco, sfoggiando una voce più calda ed energica, che si snoda attraverso sei episodi, a volte mesti e talvolta più dinamici. Non cambia la line-up, per la prima volta nella storia dei Mordred, ed il produttore è sempre l'ottimo Michael Rosen aiutato da Vincent Wojno.

"In Time", il brano più incisivo del disco, è l'opener super funk dove il D.J Pause e le sue invenzioni trovano ampio spazio, a partire dai suoni che inizialmente affiancano le strofe ben recitate da Holderby: il ritmo è stravagante, scapigliato, sorridente nel suono e non muta il registro neanche quando entrano le chitarre thrashy levigate e si innalza il pathos del menestrello Scott. Gli assoli arrivano quasi come stelle filanti e troviamo dunque un gustoso wah-wah che rielabora a quello creato dagli Oliver Onions nella soundtrack di "Io sto con gli ippopotami", film del duo Spencer-Hill, nella scena del pranzo a casa del "ladro Ormond", mentre chiude il pezzo un'assolo più deciso ed heavy. Un pezzo triste che e pieno di malinconia, che ha il potere stranamente di farci rimpiangere il suono delle chitarre, quando lo sentiamo avanzare, anzi vorremmo che avessero suonato un album intero con quell'amabile miscuglio. "West County Hospital" è la ballatona dell'album dove si dipingono le peripezie di degenti di un ospedale, con sfondo heavy/thrash. La voce commossa di Scott ci porta in un mondo nefasto:

"Per colpa della società non ho mai rapporti/Sono stato rinchiuso, legato e sedato/E c'erano altri con me/Rinchiusi dalle loro famiglie/Quando impareranno che non possiamo vivere nelle loro realtà/Ma dentro di me sapevo che dovevo alzarmi/Sapevo di dover fare qualcosa/Quache giorno anche solo per amore/Essi cercano di farvi paura/Strutturando il modo di comportarsi/Prendono tutte le vostre dignità/Trasformate in schiave insensate/Viste da dentro/Sotto luce fluorescente/Ritalin and Thorazine hanno annebbiato la mia volontà di lotta..."

Perfino il solo della canzone si denota più violento, perfino singhiozzante nei suoni acuti, quasi un' invettiva musicale. Dopo aver messo in tavola le due briscole più consistenti i Mordred perdono un pò la bussola. A partire dalla terza traccia l'album perde vigore. "The Vagrant" è un pezzo funk ordinario, indeciso nella direzione da prendere, laddove "Reach" si segnala per l'efficace refrain di Scott e nulla di più. Le due asce Sanguinetti e White restano sempre in disparte, timidamente mascondono il loro heavy metal, mentre il la sezione ritmica sembra più a suo agio in questo a galassia di suoni, dove c'è gloria anche per il D.J Pause che si scopre vocalist con "Close Minded" un pezzo di rap mischiato a riff thrash nebulizzato: divertente e sottilmente maliconico. Chiude lo spigliato ritmo di "Vision", che è un pout pourri di tutte le sonorità dell'album dove Holderby, a tratti, imita un pò la voce di Alice Cooper. Si resta un pò con l'amaro in bocca dal momento che alcune idee, se sviluppate con un suono più heavy avrebbero prodotto canzoni più sanguigne, magari con voci campionate a sostegno di break acustici che qui sono colpevolente assenti, ad eccezione di "West County Hospital". Ad esempio l'inizio di "Reach", ed il relativo refrain, che cantato più velocemente avrebbe acquistato una nuova dimensione melodica.

Si chiude così il rapporto della band con Scott Holderby (per ragioni a me ignote) e questo mini-LP non ottiene il successo sperato. Il gruppo volta pagina assumendo un nuovo cantante, quel Paul Kimball dal background hardcore che regalerà alla band gli ultimi ottimi sussulti qualitativi (ma non di vendite) assieme alla Noise Records.

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