C'è chi dice che i Motorhead da anni facciano sempre e solo le stesse canzoni, e non cambino mai. Alcuni lo vedono come un pregio, altri come un difetto, ma, in ogni caso, si sbagliano: c'è stato un periodo, all'inizio degli anni '90, in cui anche i Motorhead hanno provato a fare "variazioni sul tema". Un periodo segnato dall'uscita di album come March ör Die o di, appunto, 1916.

L'album si apre (e questo vi sembrerà una contraddizione) con due pezzi tipici: "The One to Sing the Blues" e "I'm So Bad (Baby I Don't Care)", due pezzi di speed metal potenti e ritmati, come solo Lemmy e compagni sanno suonare. Si passa poi a "No Voices in the Sky", dove il cantato rude si fonde e si adatta perfettamente a una melodia inusuale per il gruppo inglese. Si passa poi a "Going to Brazil", che nonstante sia più vicino allo "standard motörheadiano" riserva alcune soprese. Si torna poi a pezzi melodici decisamente validi: "Nightmare/The Dreamtime" (pezzo lugubre e spaventoso, che potrebbe benissimo essere la colonna sonora per i migliori film horror) e la struggente "Love Me Forever", seguiti poi da altri due pezzi tipici come "Angel City" e "Make My Day" e da "Ramones", l'omaggio di Lemmy al gruppo punk per eccellenza. Il viaggio riparte con un altro pezzo usuale per il gruppo, "Shut You Down" e si conclude con la title track, un pezzo lento, melodico e romantico dove Lemmy ci racconta gli orrori della guerra con un contorno descritto da strumenti ad arco.

Purtroppo, questo cambiamento nel registro (ancora più marcato nel successivo "March ör Die") non è stato premiato dai fans della coriacea band, che successivamente ha dovuto tornare sui suoi passi. Ma album come questo ottimo "1916" restano, a testimonianza che i Motörhead sono dei musicisti veri, sinceri e completi.

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