Una pensione d'oro

Ultimo disco dell'era Clarke, rimpiazzato poi da un Robertson quanto meno dubbio sia dal punto di vista musicale, sia soprattutto da quello visivo (Lemmy borchiato e cinturato di proiettili, lui vestito con improbabili pantaloni a righe aderenti e magliettina fucsia, durante un tour in Usa lo presero letteralmente a bottigliate, di qui l'idea saggia di licenziarlo), i nostri duri e puri dell'hard rock più spinto dell'Inghilterra di fine anni Settanta trovano nei primi Ottanta una sorta di crisi creativa. Il punk che gli aveva dato linfa stava dissanguandosi a poco a poco, la scena britannica si riempiva di gruppi e gruppetti che al suono aspro e ruvido come carta vetrata proposto dal "caprone" rispondevano con tecnica sopraffina e pulita, niente urla sguaiate, ma perfette composizioni in cui potenza e grazia venivano miscelate come solo i barmen provetti sanno fare nei loro cocktail.
Anno 1982, la storia l'abbiamo scritta già all'Hammersmith, che cazzo si fa adesso, si chiede Lemmy? Semplice, ce ne fottiamo e andiamo avanti per la nostra lurida strada.

A parole tutto facile, ma con "Iron Fist" il pugno più che darlo Lemmy lo ha preso, eccome, dritto sul faccione. E credo che da lì non si sia più ripreso. Intendiamoci, sono molto affezionato al disco, contiene brani davvero belli, ma cazzo, la minestra è strariscaldata. Ci sono gruppi che alla crisi di creatività, al passare del tempo reagiscono cambiando, di solito in peggio (vedi i finto adolescenti Priest di "Turbo", i Saxon ossigenati di "Rock the Nations", i Van Halen passati nell'ammorbidente dell'era Hagar, i Maiden sconsolanti di "Somewhere in Time", i Metallica (?) di "Load"), ma almeno hanno fatto il tentativo. Cazzo, i Motörhead no: impermeabili, inaccessibili, sordi a tutto quello che li circonda, sono andati avanti per la loro strada per anni, fino a oggi cioè, inanellando una serie infinita di dischi in cui potresti comodamente mischiare tutte le canzoni senza avvertire la minima differenza.

"Iron Fist" è il punto di non ritorno: qua e là si avverte il tentativo di svecchiare, cambiare, osare, ma è solo, appunto, un tentativo, peraltro poco convinto e timidissimo (anzi, forse è solo la totale mancanza di idee, mi resta ancora il dubbio a dir la verità). Tra l'altro ai fans - che di solito si bevono tutto, se no che fans sarebbero? - non piacque neanche troppo, onde per cui a Lemmy vien presto da chiedersi: ma chi cazzo me lo fa fare?
Episodio chiuso. Chiude anche Clarke, e buonanotte. Quello che verrà dopo è un incubo. Il già citato Robertson, il paranoico Gill al posto del geniale Taylor, due chitarristi in saldo e una serie di sconcezze in studio per tutti gli Ottanta e Novanta.
Ma. Anche in questa storia c'è il suo ma. Trasformando come un abile prestigiatore un pauroso limite in una sfolgorante virtù, Lemmy decide di darsi da solo la patente di monumento vivente del metal, il milite ignoto che sta lì, col bello e il cattivo tempo, in tempo di pace e di guerra lo troverai sempre sul palco con il suo basso in mano a suonare sempre le stesse quattro note, con il microfono sempre un po' più alto per tenere in tensione le corde vocali ormai corrose, gonfio di alcol e saturo di coca fino a scoppiare, con la quindicenne nel camerino e valanghe di fan assuefatti, per non dire rincoglioniti.

Ti è andata bene Lemmy, proprio di lusso. Hai vissuto alla giornata negli anni Ottanta, quando la gente cantava seek and destroy, sei sopravvissuto alla megalomania dei tedeschi e degli scandinavi nei Novanta e oggi, quando la buriana è passata e non c'è proprio più un cazzo a cui votarsi, accade che la gente ti riscopre, e sempre più numerosa, gonfia di ammirazione e commozione dice: che grande Lemmy, uno che non si è mai venduto.
E bravo, Mr. Kilmister, il ragionamento dell'82 è stato quello giusto. La pensione d'oro del Metal-Inps te la sei proprio guadagnata.

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