Into the void we have to travel...
Dobbiamo viaggiare nel vuoto... nella tormenta, tra cactus e topi sfocati. Dove anche la più insignificante delle creature può diventare un’ombra inquietante, un mostro. Come la bestia di Walt Disney. Nel vuoto. Il Vuoto. L’unico modo per sfuggirgli è urlare, urlare per far tacere questo silenzio che ci fa impazzire. Urlare perché quello che pensiamo di avere tra le mani è soltanto l’oro degli sciocchi.
E non arrendersi, pur avendo già perso in partenza. Allora cosa ci resta da fare? Non prendersi troppo sul serio. Cogliere l’attimo. Non pensare. E lasciare che quel che deve accadere accada. In questo modo a volte possono germogliare pezzi di cuori infranti, per dar vita a perle preziose, piccoli sospiri bianchi che ci risvegliano dal torpore.
E del vuoto è antidoto e al tempo stesso veleno la tormenta cui ci troviamo davanti, sintesi di adolescenze peccaminose in stato di coma, figlia legittima del dinosauro minore, schizofrenia latente. È la melodia disperata della cosa drogata, il delicato sussurro più verde e lo stordimento che sento solo quando ti tocco. È una eco portata dal vento, tatuata a vita sulla propria pelle. La tormenta quando esplode emoziona, riesce a colpire al cuore e ipnotizzare, disillusa, l’ alito malinconico che ci prende in giro e sputa sulle nostre facce sfocate. Lo fa urlando sgraziata e scomposta, affascinante e sinuosa. Di fronte ad essa non puoi trattenerti. Qui possiamo infrangere tutti i limiti a colpi di tamburo, come osò un tempo una luna suicida... e darle filo da torcere. Ma ora, quando tutto sembra veramente perduto, quando l’aria diventa un coltello letale, sembra chetarsi... niente battiti di ciglia, niente echi per la testa. È il vero centro: il Vuoto.
Ed il Vuoto non è mai stato così fragoroso nella sua ineluttabilità, un monologo che aggredisce e punta alle nostre gole, trema nel Caos per poi diventare macchia sfocata in agguato. Ma questo era solo un preludio, che ci presenta colui che cambierà i nostri destini, figlio di quattro pionieri dell’epoca della corsa all’oro. Guinevere. Fidati di lui: bastano dieci intensi minuti per abbandonarsi alle sue braccia soniche, lasciata alle spalle la confusione delirante della giovinezza, stremati dalla violenza del ghiaccio che ci taglia di nuovo le guance. Egli ci culla, con parole dolci e soffuse, e finalmente riusciamo a scorgere nel cielo una luna rosa, mentre la tempesta attorno a noi è sempre più flebile, fino a diventare nient’altro che una vibrazione. Siamo fuori. Vivi. Ma cosa è cambiato? Il petto è sempre stretto in una morsa, e un’esile fiammella ancora arde in fondo alla ferita. Ora però è solo una fiammella. Forse abbiamo perso, ma non potrebbe esserci sconfitta più dolce.
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