Qui da me è già autunno inoltrato; lo scorso mercoledì ho pestato la prima neve di stagione ai 2313 metri del Passo San Giacomo, sulla linea di confine tra Italia e Svizzera. Ed ho pensato alla Norvegia e all'esordio, nel lontanissimo 1991, dei Motorpsycho.

Ghiaccio Bollente: la migliore e più sintetica definizione per descrivere "Lobotomizer".

Lavoro pesantissimo, con una produzione non eccelsa, grezza ed opprimente. Pochi soldi e poco tempo a disposizione per registrarlo ad Oslo nel gelido Dicembre del 1990.

Proto-Stoner, Noise, frustate che si spingono dalle parti dell'Hardcore; da subito emerge un gusto psichedelico che sapranno molto ben sviluppare nel capolavoro successivo del 1993, quel "Demon Box" a detta di molti il disco che ancora si erige sovrano al vertice della loro lunghissima produzione.

Fuori sincrono, fuori controllo in quasi tutti i momenti degli otto brani; a parte il minuto Folk limpido e sereno della title track che da il via alle successive fiammate scorticanti delle restanti tracce. La dissonante frustata di "Grinder" sorretta dalle urla allucinate di Bent; gli apocalittici otto minuti di "Hogwash" Hard-Blues che si avvale della presenza di un hammond, aggiungendo un fascinoso e malsano tocco seventies a questa poderosa cavalcata. I pochi intransigenti minuti grezzi, rissosi e Punk di "Frances" (sembra di trovarsi di fronte ai monumentali Soundgarden dei primi due album); la catarsi Hard-Rock-Acid della conclusiva "TFC". Dodici minuti glaciali e rumorosi oltre ogni limite, da ascoltare ad un volume sempre maggiore: impressionante nera maestosità.

Immagine di copertina che ben si addice all'ascolto del lavoro.

Un passaggio fondamentale per capire l'evoluzione infinita dei Motorpsycho.

"I suoni di Lobotomizer fanno schifo, ma c'è già un'attitudine notevole. Ascoltarlo adesso non è piacevolissimo, eravamo così ingenui ed inesperti ma decisissimi ad andare avanti" (Cit. Bent).

Diabolos Rising 666.

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