Pomeriggio primaverile, il temporale è all'orizzonte e i nembi di pece opprimono la mente dell'ascoltatore.

L'immobilità impera in questo paesaggio, dalla finestra della casa di fronte si accende una luce, pochi minuti, anch'essa si spegnerà. Il rumore pieno dei tuoni si fa sempre più profondo e rimbomba cupamente nelle orecchie; l'oscurità permea sin dentro l'animo. Le delusioni e le sconfitte tornano alla mente come spinte dalle onde di un mare in burrasca, onde dalle quali non ci si può difendere. Si scrolla la testa per pensare ad altro ma, in verità, ad altro non si vuole pensare.

Le prime gocce di pioggia cadono sulla strada, proprio sotto di te. L'aria sempre più fredda raggela il viso. Nuovi ricordi tornano alla mente, quando ancora avvolti dalla spensieratezza dell'infanzia si giocava sotto la pioggia, incuranti dell'acqua, del freddo, dei problemi che ti attanagliano dai quali, ora, non puoi più divincolarti.

Un moto di rabbia sale da dentro e fuoriesce furiosamente con un grido, un urlo che nessuno sentirà. Allora, la solitudine diventa totale, nessuna illusione consolatoria lambisce la mente, in essa c'è spazio solo per i sogni infranti, li rivedi frammentati come una serie di diapositive messe l'una in sequenza all'altra: i fallimenti riguardanti alla vita professionale, alle relazioni interpersonali con i propri familiari, con i propri amici e con Lei sono li, a testimonianza della propria completa inettitudine. L'insignificanza della vita ti viene sbandierata in faccia, ogni tua azione, ogni tuo gesto, ogni tuo sentimento, si rivelano per quello che in realtà sono: particelle infinitesimali di una vita della quale è impossibile carpire le leggi, una vita nella quale non si può far altro che navigare affannosamente per non colare a picco, come una barchetta di carta navigherebbe in un infinito oceano di pece. Il naufragio è però inevitabile, d'un tratto, tutto diventa improvvisamente nero e ci si lascia cadere, all'infinito nell'infinito.

Con il passare del tempo però l'oscurità dell'abisso e tutte le immagini dapprima visionate scemano, si dissolvono lasciando spazio soltanto ad una grigia e insensata amarezza, data non soltanto dal risultato del riesame del proprio passato, ma anche dalla consapevolezza che, nonostante il peggio sia ora terminato, questo riesame si riverificherà ancora, fino alla fine; basterà una parola, una sensazione, un sapore, un odore, una persona che si riteneva ormai perduta nei tanti meandri del labirinto dell'esistenza per far riaffiorare tutti i pensieri appena scacciati.

Si da un'ultima occhiata al cielo, anche lui sembra aver scaricato tutte le proprie lacrime, un raggio di luce fuoriesce dalle nuvole e illumina la fine della strada, proprio li, in corrispondenza dell'incrocio oltre il quale essa, nonostante il palazzo nero che gli s'intrappone dopo pochi metri, sembra procedere fino all'infinito.

Tutto ciò è "The Sullen Sulcus", Mourning Beloveth, 2002.

In quell anno gli irlandesi certamente non inventarono un nuovo genere; questo è un cd di classico death doom: riff lenti e pesantissimi, voce in growl alternato a linee pulite, tempi cadenzati, quasi infiniti. Nessun orpello, nessuno strumento o tecnica che spezzi il plumbeo incedere di ogni canzone, soltanto puro death doom metal.

Nient'altro da dire.

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