Mutsumi, strega giapponese catapultata in un inferno dancefloor che non ha nulla di ballabile, distrutta e riamalgamata dalle mani del marito Maurice Fulton, produttore e musicista di culto, zampetta come un'invasata tra una traccia e l'altra di questo "Out Of Breach": un disco indefinibile, perfino ingestibile e stronzo. Perchè Mu, che emula la teatralità di Lydia Lunch senza citarla, si lascia andare in spasmi tra i beats, tra i battiti carnali, erotici, perversi e sessuali che scorrono come lava incandescente.
Chi ascolta è fottuto: nessuna possibile ripresa, nessuna risalita dal coma, nessun battito cardiaco. Ciò che scorre può essere sia un capolavoro di acid funk che una colossale presa per i fondelli, ma non importa.
Bisogna entrare nel mood. Bisogna reggere un mazzo di rose nella mano e lasciarsi andare. Fluire. Vibrare. Perchè questa non è musica, è droga non tagliata, è epilessia psicopatica, sensualità sgraziata, vomito sotto formalina.
Tutto fuorchè musica: è un delirio. Un delirio incontrollato, che ti prende e non ti molla più. E la cosa che si fa più frustrante è il non capire se questo masochismo ti piaccia oppure no: da una scheggia come "Haters", che fluisce in una title-track quasi drum 'n' bass, ma che si allontana dal genere come pochi altri pezzi, sfalciandosi in una lunga coda di battiti pulsanti, passando per un singolo volutamente trash, ma anche irrimediabilmente bomba come "Paris Hilton".
Quando arriva un pezzaccio come "Stop Bothering Michael Jackson" ti ritrovi nel bel mezzo di un terremoto: un pezzo che già prevede l'emulazione degli You Love Her Coz She's Dead, che arriveranno anni dopo, e sputa già loro in faccia: perchè la rabbia distruttiva della cantante si disgrega con parti di pura sonnolenza parlata, che corre impavida su un tappeto sonoro che non ha paura di miscelare ritmi animaleschi, scorribande acid-funk e rintocchi di piano.
"Tigerbastard", non meno anarchica, è una possibile amplesso sessuale tra una Siouxie sotto overdose e i New Order, che si bagna di new wave per eiaculare uno sbilenco "Gioca Jouer" dell'underground.
Veramente devastante, però, è lo straordinario tour de force di "We Love Guys Named Luke": caccia al topo che si diapana tra rincorse di suoni dell'altro mondo, urla dallo spazio e tanta, tantissima schizofrenia, che, inaspettatamente, si tinge di post-rock. "Throwing Up", ode d'amore al vomito post-sbronza, suona proprio come il suo testo: è un delirio con le vertigin iche si abbatte da solo in punta di piedi, viaggiando ubriaco come chi sta per svenire ed evacuare l'anima.
"So Weak People" è una cazzata che vorrebbe essere balearic swing, ma è gioiosa di essere un insulto verso l'ascoltatore, che voleva immergersi sempre di più nel delirio sonico, inconscio del fatto che è proprio questo il pezzo più delirante del lotto, insieme ad un'indefinibile viaggio robotico nel kitsch-vocoder di "I'm Coming To Get You", ideale parodia femminista dei Daft Punk.
"Like A Little Bitch" è una bomba di j-pop 8-bit del peggiore trash: una filastrocca per bambini sociopatici, che pone le basi alla conclusiva "Extreme", che straccia e deturpa i suoni da discoteca anni '70, sposandoli forzatamente con la jungle.
E' il finale e non sai che cazzo hai ascoltato. Non sai se ti è piaciuto, o meno. Non sai se vorresti tornarci dentro o buttare il CD dalla finestra.
Sai solo che ti sei divertito, ritrovandoti così ebete e spiazzato come un bigotto che ha sbagliato direzione e, anzichè finire a Santiago De Compostela, si ritrova catapultato nella discoteca più sudicia di Berlino.
That's amore.
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