Alcune storie sembrano acquistar senso per il sol fatto di tramandarle: scorrono via come seguano un filo d'Arianna posto lì, tra le miserie di inizi incerti e il climax di un finale scenico. Alle volte capita di dover fare un passo indietro, prender coscienza di ciò che si ascolta, ricollocare il tutto in carne, ossa, sangue. Bisogna esser consapevoli che le cose possano andare diversamente, senza seguire un fato predeterminato, scivolando via per uno sguardo sfuggito o un incontro mancato. Si potrebbe dire che la Storia è fatta da una catena di piccoli eventi; mai del tutto programmati, sempre lasciati in balia di motivi aleatori (pagine e pagine Tolstoj scrisse a riguardo).
La vicenda di Muddy Waters (al secolo McKinley Morganfield) non fa certo eccezione. Lungi dall'esser nato sotto una buona stella, visse fino ai primi anni 40 con le immense distese di cotone sotto i suoi occhi, scrutando all'orizzonte i campi di lavoro del Mississippi.
Era dannatamente bravo con la sua chitarra, ammirando i suoi idoli Son House e Robert Johnson come divinità scese in terra. Da loro prese l'anima blues più sporca, triste, goliardica e sfrontata che sia mai stata forgiata. La fece sua, la portò con sé ovunque. Suonò al suo stesso matrimonio, non poteva tradire quello che era.
In un'afosa giornata estiva, in un lontano 1941, qualcuno bussò alla sua porta; lì in un angolo sperduto di Stovall, Mississippi. La Library of Congress aveva incaricato tale Alan Lomax di registrare alcuni musicisti cresciuti nelle piantagioni e fattisi un nome con la crescente sottocultura blues.
Per Muddy Waters fu quello il punto di svolta: sentire per la prima volta la sua stessa musica su disco lo rese davvero conscio del suo potenziale. Un narciso specchiatosi nel lago e infatuatosi di se stesso. Così, di lì a un paio d'anni, decise di spostarsi in un grande centro. Si dà il caso che quella città fosse Chicago, è lì musicista di strada fece la conoscenza di Leonard Chess (storico fondatore dell'etichetta omonima). Muddy cominciò le sue registrazioni con Chess nel 1947, ed è da qui che la storia di questa raccolta comincia. Nel giro di pochi anni si creò attorno a lui la più grande blues band che la storia abbia conosciuto. Per fare alcuni nomi: Little Walter all'armonica, Jimmy Rogers alla chitarra, Willie Dixon al contrabbasso in alcune occasioni. La raccolta qui presentata testimonia quest'età dell'oro: dagli inizi nel 47 fino all'esplosione dirompente del rock'n'roll.
Ad esser onesti, si dovrebbero citare tutti i brani inclusi in questa raccolta. Ma sarebbe comunque difficile poterne fare un'analisi: si parla di veri e propri monumenti che hanno aperto la strada tanto allo sdoganamento del blues nel panorama internazionale e alla cultura "bianca" (negli anni sessanta molte band saranno in debito con Muddy Waters) quanto all'esplosione della musica black a venire, in tutte le sue forme.
Forse non si sarebbe parlato di rock'n'roll se non fosse stato per il grande successo ottenuto dai bluesman grazie alla Chess Records. Un infarto si porterà via Leonard Chess nell'ottobre del 1969 e farà altrettanto con Muddy Waters nell'83. Morto nel sonno, nella tranquillità della sua abitazione, Muddy Waters si portò via con sé una capacità chitarristica che avrà pochi eguali: i suoi cromatismi, urlati con uno slide quasi infuocato, sono tra i tratti che più lo contraddistinsero.
Cantò il blues come pochi altri: intriso di sesso, d'alcohol, di mogli tradite, di vita al limite del vagabondaggio, di amici persi durante il cammino. Portò il blues dei padri con sé per una vita intera, fino a farsene incarnazione terrena.
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