Alla fine i Mudhoney sono uno di quei gruppi che usciti fuori alla fine degli anni ottanta e poi raggruppati dai più nel grande calderone del genere "grunge", abbiano mantenuto negli anni uno standard elevato e una ispirazione anche ideologica che li porti ancora oggi a cacciare fuori dischi che siano allo stesso tempo potenti, caratteristici (perché i Mudhoney hanno un loro sound tipico e che ha fatto scuola) e che abbiano ancora contenuti di carattere sociale rilevanti e prodotto di una contro-cultura che negli US così come nel resto del mondo, in fondo non si è fermata a Seattle negli anni novanta oppure a Genova all'inizio dello scorso decennio.
Potremmo tirare fuori vecchie storie tipo come Kurt Cobain divenne una icona pop e fu sacrificato sulla croce (ma senza resuscitare) dalle stesse persone che lo avevano divinizzato; potremmo parlare dei Pearl Jam come un gruppo di vecchi imbolsiti che Neil Young al confronto sembra ed è a tutti gli effetti un ragazzino (pure perché con questa storia di Pono per la verità mi ricorda un po' tutti noi ragazzini tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta, che volevamo un GameBoy, ma costava troppo); ma in fondo quello di cui vale veramente la pena parlare è quanto "Digital Garbage" riesca a essere un disco efficace a distanza di trent'anni esatti dalla formazione del gruppo capitanato da Mark Arm e Steve Turner (completano il roster lo storico batterista dan Peters e Guy Maddison, subentrato a Matt Lukin oramai più di quindici anni fa). Un trentennale che cade nello stesso anno della casa-madre Sub Pop e già festeggiato dal rguppo con la pubblicazione del "Live In Europe" ad inizio anno (una raccolta di tracce registrate tra Germania, Croazia, Svezia, Austria, Norvegia e Slovenia nel 2016).
Il sound del gruppo è sempre quello stesso reprise di acidità MC5, rock and roll paranoici tipo "Please Mr. Gunman", "Messiah's Lament", "Next Mass Extinction" recital punk-blues suburbani ("Night And Fog") e un paio di pezzi più "facili" tipo "Kill Yourself Live". Resta comunque dominante la componente garage e carica di fuzz e distorsioni, ma niente appare ripetitivo in un album in cui Mark Arm concentra la sua attenzione alla realtà contemporanea, senza ipocrisie e inutili nostalgie di un'età d'oro che in fondo non è mai esistita: sono gli Stati Uniti di Donald Trump, quelli di Charleston e quelli dell'uso di internet e del mondo del web in una maniera aggressiva e "funzionale". Siamo nel periodo in cui tutti usano l'espressione "analfabeta funzionale", mentre Michela Murgia sulle pagine de L'Espresso ci domanda se siamo fascisti con un test in 65 semplici domande che se mettete sì, sinceramente siete solo stronzi pure se vi siete laureati con 110 e lode in fisica nucleare. L'ideologia è qualche cosa che trascende il titolo di studio e nel mondo occidentale molte volte quello che viene definito "analfabetismo" è solo deresponsabilizzante. Un alibi. Tutti quanti noi siamo chiamati a prenderci le nostre responsabilità. Mark Arm è un predicatore suburbano, ci dice questo, punta il dito contro i farisei del ventunesimo secolo e forse finirà dritto all'inferno come tutti noi, ma per questo bisognerà aspettare ancora molto tempo. Per fortuna.
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