"Ma chi sono questi MudhoneyS ?? Sono famosi su MTV ??"
Narra la leggenda che queste furono le parole di Bill Clinton quando gli riferirono che in visita alla Casa Bianca, nell'anno del signore 1994, sarebbero arrivati non solo i suoi beneamati Pearl Jam, ma anche Mark Arm e soci. E così mentre Vedder e compagnia furono ricevuti in pompa magna da Mister President, gli scalcagnati Mudhoneys vennero dirottati in giro alternativo nella residenza presidenziale, con ogni probabilità facendo tappa in cantina alla ricerca di lattine di Budweiser.
Il divertente aneddoto illustra bene la parabola dei Mudhoney: tra i primissimi a scoprire il filone aureo attorno a Seattle, ma troppo svogliati e apatici per essere interessati a sfruttarne le potenzialità, finendo per cedere ad altri la ribalta. Il quartetto di Seattle si era inoltre dato la zappa sui piedi da solo in tal senso, pubblicando all'indomani del boom di "Nevermind" il loro album più contorto e involuto nel proprio feticcio garage-punk, "Piece of Cake". Con "My brother the cow" ci fu invece un deciso ritorno in quota, favorito anche dall'asciutta produzione di un Jack Endino in forma come ai tempi di "SuperfuzzBigmuff". Il loro suono fatto di malsane e distorte stilettate garage-punk condite da aspre dinamiche proto-hard rock e da un goccio di rauca psichedelia, pur non regalando sorprese tra questi solchi, fu almeno in grado di infilare nel loro canzoniere alcune perle di gran valore. "My brother the cow" risentì inoltre dell'influsso del colpo di fucile che segnò lo spartiacque definitivo della saga di Seattle: non in maniera ispirata e drammatica come in "Vitalogy" dei Pearl Jam, ma con lo spirito dissacrante e pugnace che non ha mai abbandonato il quartetto di "Touch me I'm Sick".
Il primo singolo estratto fu "Generation Spokesmodel", smargiasso anti-anthem che ironizza sul mito della flanella, sulla diarchia MTV-Spin Magazine e la grunge generation da supermercato, con tanto di amara dedica di Mark Arm all'amico Kurt ("grazie ai ragazzi per farmi diventare chi sono, il venti per cento del merito va a quella persona". Ancora più esplicità è la beffarda "Into yer shtik", in cui la vedova Cobain è invitata senza tante perifrasi a imitarne il passo finale. I momenti migliori vanno però cercati nella melmosa spirale di "In my finest suit", i cui strazianti accordi riportano ai fasti di "If I Think" con un un crescendo irresistibile che si sublima nel refrain " Well I got you, I got a lot to lose", mentre il sipario cala con il tourbillon acid-freak di "1995", tra i roventi turgori chitarristici di Steve Turner e fiati free alla "Fun House". "It's 1995, all right They say I'm lucky to be alive", sputa nel microfono col consueto sarcasmo Mark Arm. Fortunati anche noi, ad aver ancora in giro questi inguaribili gaglioffi.
Voto 3,5
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