Giugno 2007. Tempo, per il sottoscritto, di prepararsi per la maturità. Da studente ligio al dovere me ne stavo lì tra le sudate carte (ricordo che quell’estate non fu affatto clemente) a rodermi il fegato con integrali, l’ipocrita letteratura italiana di fine ottocento (senza far nomi), Virgilio e le sue passioni campestri e (vado a memoria) uno scrittore inglese che il mio subconscio ha visto bene di annegare. L’unica consolazione che avevo era il mio stereo che diligentemente continuava a girare l’intero pomeriggio.

Dopo un paio di giorni mi accorsi che, qualsiasi album scegliessi, appena premevo il tasto play il mio lavoro rallentava in maniera vertiginosa. Dovevo scegliere se apprezzare di più il silenzio tombale nella mia stanza o di fronte alla commissione d’esame. Poi luce fu. Scoprii quest’album. Messo nello stereo s’intrufolava nella mia stanza timidamente, quasi a voler chieder permesso. Come un camaleonte sembrava scimmiottare il venticello estivo che, in una specie di morbida danza, flirtava con le tendine della mia finestra. Era silenzio. Eppur si muoveva. Questa ricetta andava avanti per i primi sei-sette minuti di “Cuerpo celeste”. A questo punto un’esplosione improvvisa, poi di nuovo silenzio. Sembrava quasi di avvicinarsi ad un corpo incandescente che, nel buio più assoluto, poteva in un attimo raggiungermi con fiamme letali. A seguire un beat sporco (in odore di bitcruscher) che sorreggeva un lungo e “boreale” sustain. Era per me troppo tardi per tornare indietro. Iniziata “Cielo” ero già conquistato e scivolavo nel flusso delle sei composizioni senza quasi accorgermene. Potevo tornare ai miei libri senza, al contempo, distogliermi da ciò che ascoltavo. Il tutto si compenetrava.

Quell’estate ascoltai più e più volte quell’album, ma ero, ormai, talmente imbevuto di quelle sonorità che non riuscivo a osservare con occhio distaccato. Murcof mi aveva sedotto. E già soffrivo di gelosia retroattiva. Mi ero lasciato sfuggire “Remembranza” (di due anni più vecchio) e pensavo di rimanere impunito. Ma, nonostante il lavoro del 2005 venga considerato il suo apice, è per “Cosmos” che rimango legato a questo musicista messicano. Tutto in questo lavoro sembra trovare il giusto posto. C’è un senso della misura, un uso dei samples, una capacità “pittorica” che rende impeccabili questi sei episodi (si veda “Cometa” e le sue trame semplicemente perfette). Arrivati alla fine del disco la sensazione è quella di aver fatto un piccolo safari in giro per la via Lattea. Tutto sembra esser rimasto immobile nell’intera ora di ascolto. Come in un ipotetico tour attorno al sistema solare, la vita (per come la intendiamo noi) appare qualcosa di distante. Ogni tanto fiammelle arrivano alle nostre orecchie (come sul finire di “Cosmos II”), ma sembrano esser piuttosto echi lontani. Voci in giro tra le galassie da chissà quanti anni luce. “Oort” si spegne pian piano.

La visita tra le stelle è finita. Altro giro, altra corsa.

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