Non avrei firmato per uno “Showbiz 2” come settimo album dei Muse, non avrei firmato per un ritorno alle origini proprio ora che la creatività e l’eclettismo dei Muse avevano raggiunto il picco e probabilmente avevano ancora molte sorprese da regalare, magari dopo altri due album ma non adesso. Ma nonostante questo mi sono tranquillamente e comunque lasciato attrarre dall’idea di uno “Showbiz - 16 Years Later” e ho apprezzato comunque questa nuova uscita.
“Drones” infatti dimentica quasi totalmente la varietà stilistica e le sperimentazioni dei dischi precedenti per concentrarsi su un puro e grezzo rock’n’roll. Un disco più che mai dominato da chitarra e basso, caratterizzato da un suono sporco, graffiante, crudo, cattivo, essenzialmente di stampo alternative rock ma con un certo occhio anche verso l’hard rock; non suonavano così puramente rock addirittura dai tempi di “Showbiz” e un sound così sporco non lo avevano comunque da “Origin of Symmetry” (che pur essendo ancora molto rock-oriented già mostrava spiccati segnali di una creatività non indifferente). L’unico brano che mantiene il sound futuristico e tecnologico dei precedenti album è l’opener “Dead Inside” - dominata da suoni sintetizzati e praticamente simile a “Madness” essenzialmente per via di quella chitarrina che si aggiunge nella seconda metà - forse inserita forzatamente nell’album per stabilire un briciolo di continuità con quanto fatto in precedenza mentre del vero rock sinfonico lo si può ancora trovare in coda con “Aftermath” e “The Globalist”, il brano più lungo della loro discografia con i suoi dieci minuti di durata: praticamente un pezzo prog con una prima parte lenta, una parte decisamente hard ed una finale con pianoforte ed archi a dominare. Ma togliendo questi pochi punti di connessione con il passato recente ciò con cui veniamo a contatto è un qualcosa che si basa principalmente su tutt’altro che synth, batterie elettroniche, macchine elettroniche, archi e quant’altro… Soluzioni che per la verità non vengono estromesse del tutto ma vengono nettamente emarginate in favore dei chitarroni e dei bassi potenti. “Revolt” e “Mercy” (che è praticamente una versione nettamente più hard e meno pop di “Starlight” o di “Resistance”) ad esempio hanno un passaggio di synth tipico del loro stile nel ritornello (la seconda ha anche il piano nelle strofe), “Reapers” ha strani effetti alterati, “Defector” un inserto sinfonico ce l’ha… ma tutti quanti volutamente soffocati da tonnellate di chitarre ruggenti e a volte pure poco udibili. Per azzardare un paragone illustre dico che questa scelta di ritorno al passato mi ha ricordato tanto i Rush di “Counterparts”, che li vedeva tornare a qualcosa di più duro e chitarristico dopo anni di tastiere e synth in evidenza.
Ma passiamo alle osservazioni. Possiamo cominciare dicendo che tornando ad un sound più grezzo hanno finito per perdere quella genialità e quella varietà che li rendeva eclettici. Bellamy offre sì una buona prestazione e propone buoni assoli e qualche effetto carino dimostrando comunque di saper giocare con le distorsioni, Wolstenholme accompagna molto bene col suo basso pesante come ai vecchi tempi… ma la sensazione che si ha è quella di un qualcosa di troppo ordinario; mancano i veri colpi di genio, quelli che li senti e rimani a bocca aperta e che nei dischi precedenti abbondavano, lì ogni traccia era veramente una sorpresa; qui l’unico brano veramente geniale e che lascia a bocca aperta è non a caso proprio quello più distante dal sound complessivo del disco, la opener “Dead Inside”. In sostanza abbiamo un disco molto “ordinario”, per certi versi pure un po’ “scolastico”, che regala 52 minuti di carica e adrenalina ma senza mai veramente decollare verso il magnificente.
La cosa un po’ seccante è che la scelta di tornare indietro sia arrivata proprio nel momento in cui l’ispirazione della band aveva raggiunto il massimo splendore e viene da chiedersi cosa abbia spinto i Muse a fare questa scelta proprio adesso. Una mia conoscente sosteneva che l’approfondimento delle loro influenze elettroniche e l’eventuale scelta di buttarsi a capofitto su di esse li avrebbe portati verso qualcosa di ancora più grandioso. Tuttavia sappiamo bene che rendendosi più eclettici i Muse sono diventati anche più commerciali ed appetibili alle radio e che questo li ha esposti a notevoli critiche; lo sappiamo che esporsi al mainstream alimenta sempre le critiche dei soliti colti che, spesso con pregiudizio, sparano merda su qualsiasi cosa goda di notevoli passaggi radiofonici, magari negando che un approccio più easy può anche offrire idee davvero interessanti (ed è davvero il loro caso). Saranno forse questi ad aver convinto i Muse a tornare indietro? In un commento su Facebook relativo al passato recente della band un tizio, in risposta a me che parlavo del loro cammino come una “crescita artistica”, scrisse che l’unica crescita che li ha interessati era in termini di paraculaggine e abilità a rispondere alle esigenze del music business. Ora, sinceramente non so se i Muse abbiano fatto tale scelta in risposta a chi non digeriva le ultime produzioni, io per primo direi di no, non credo che la paraculaggine sia nella loro indole, ma dico che se davvero esiste un disco “paraculo” nella loro discografia questo è proprio “Drones”, non i precedenti; la mia impressione infatti è che mentre i precedenti sono stati realizzati effettivamente per tirare fuori la propria creatività questo sia invece stato realizzato sotto la pressione di vecchi fan delusi; sembra un po’ la mentalità che c’era dietro a “Scenes From A Memory” dei Dream Theater, ovvero quella del “we raga, il vostro disco precedente ha ricevuto molte critiche, tornate un po’ alle origini!”. Tuttavia sottolineo che si tratta solo di un’impressione che alla fine si rivela falsa o presunta, i Muse non sono assolutamente quella band che scrive sotto pressioni esterne, né da parte dei fan, né da parte delle case discografiche; anche perché sinceramente se volessero ancora fare barcate di soldi scriverebbero ancora album appetibili al mainstream piuttosto che un album come “Drones” che con il suo sound dannatamente rock’n’roll ha sulla carta molte probabilità di ridurre la loro popolarità.
Comunque dibattiti a parte alla fine il disco mi è piaciuto tranquillamente; l’ho ascoltato per un bel mesetto e ho ben goduto dell’energia che trasmette. Non so se rientrerà nella mia top ten personale del 2015 in quanto si tratta di un disco decisamente poco eclettico e sento che ci sono un bel po’ di dischi, sia già usciti che prossimamente in uscita, tranquillamente in grado di batterlo. Tuttavia spero che questo “Drones” sia soltanto una manifestazione di nostalgia verso il passato e che la band torni a qualcosa di più vario e sorprendente.
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