“Origin of Simmetry” è l'album di consacrazione dei Muse, a mio avviso il loro lavoro migliore e quello più sconvolgente dal punto di vista artistico.
Se l'ardita velleità di combinare un'esagerata strafottenza rock a un certo lirismo ed eleganza era emerso sin dal primo disco (un brano su tutti: “Sunborn”), è con questo secondo lavoro che il terzetto inglese decide di abbandonare ogni pudore ed imporsi con tronfia altisonanza.
Un esempio grandioso è subito la opening-track, “New Born”: una tormentata ma delicata intro di piano accompagnata da una coinvolgente linea di basso lascia poi posto a una deflagrazione rock, con il frontman Matthew Bellamy che lancia la sua chitarra prima in granitici riff e poi in assoli ora eclettici ora lancinanti, ma sempre ispirati. Il bassista si dimostra suo degno pari, talvolta sostituendolo come linea solista, mentre Dominic Howard alle pelli imbastisce groove quadrati e massicci, rock, non eccessivamente fantasiosi ma tremendamente efficaci. Tuttavia la struttura della canzone è tutt'altro che semplice e nei 6 minuti succede di tutto, in un vorticoso susseguirsi di idee che culminano nel travolgente assolo finale e l'outro di cori campionati. Davvero troppa roba per non considerare il brano, come tanti altri di questo disco, un capolavoro.
Altrettanto incredibile è la successiva “Bliss”: un'altra ricca e notevole intro di piano esplode in una canzone la cui tensione diventa addirittura insostenibile nel ritornello. La canzone risulta molto più semplice della iniziale ma l'intuizione melodica è tale che il brano non può annoiare.
“Space Dementia” poi è il mio pezzo preferito, dell'album e di tutta la loro discografia. L'interpretazione di Bellamy non è mai stata tanto melodrammatica e scanzonata, e assolutamente significativa. E come se la solita deliziosa e sospesa intro di piano, il tiro serratissimo del ritornello e il semplice ma delizioso bridge (col mio amato melltron!) non fossero state abbastanza, a un certo punto la progressione invece di esplodere nuovamente nel ritornello evolve in un delicato strumentale, assorto, e in un tremendo outro, esageratamente altisonante, dominato da una chitarra superdistorta. Pazzesco.
“Hyper Music” e “Plug in Baby” invece sono canzoni più quadrate, brevi, rock e orecchiabili, ma convincono lo stesso. Da segnalare poi il riff della seconda, diventato giustamente leggenda.
È il turno poi di “Citizen Erased”, e siamo nuovamente nella mitologia. La band svela in parte la sua attitudine progressive altrove in parte dissimulata, e il brano si arricchisce di gradevolissimi richiami a gruppi storici, come i Radiohead (a me sembra di sentire come una eco a “Paranoid Android”, di soli pochi anni prima) e dei Pink Floyd melodici del periodo d'oro. Ancora una volta il riff principale è granitico, stentoreo, ricco, ma ad accompagnarlo vi è un articolato brano, con un dolcissimo strumentale finale, assorto e poetico.
Dopo “Citizen Erased” non ci sono più brani altrettanto complessi, e la seconda metà del disco si profila come una serie di componimenti più lineari.
Certo, Bellamy cerca ancora di stupire con la magniloquenza di “Micro Cuts”, in cui sfoggia un falsetto impossibile che esaspera all'inverosimile nell'impetuoso ritornello, ma per esempio “Screenager” è il primo brano del disco privo di vere deflagrazioni, in cui la band si offre languida ed elegante. L'altisonanza e quel mood dark dei brani iniziali viene ripreso brevemente in “Dark Shines”, che tradisce la simpatia di Bellamy per le sonorità western, che qualcuno troverebbe fuori luogo nell'impostazione heavy e futuristica della band ma che sorprendentemente non stona, in quanto ulteriore manifestazione della stravaganza del songwriter. Il brano è una gustosa anticipazione di quell'indimenticabile episodio di “Knights of Cydonia”.
“Feeling Good” è invece una deliziosa cover di Nina Simone, dal forte valore affettivo autobiografico per Bellamy, che infatti la restituisce con accorato entusiasmo.
Le emozioni sono ormai finite: “Megalomania” e il lancinante organo di “Futurism” chiudono in grande stile ma senza veri scossoni l'opera.
Nonostante la seconda metà del disco è decisamente inferiore alla prima, strepitosa, considerato il coraggio, l'istrionismo e l'impatto della band, non mi sento di tenere conto di questo lieve calo finale.
Chi critica la band, non riconoscendone l'innegabile talento, individua però giustamente che nel corso della loro carriera si sono talvolta abbandonati ad eccessi, anche di autoindulgenza. Ma in questo disco tutto è perfettamente al proprio posto e i Muse sembrano inarrestabili.
Voto: 10 e lode
Ascolto consigliato: “Citizen Erased”
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