And so, here we come again, Muse: avevo un po' di diffidenza, quasi paura ad avvicinarmi al nuovo disco del trio di Teignmouth: paura che quel mix di sensazioni sonore a fior di pelle che mi aveva fatto amare la musica di Matt Bellamy e soci fosse definitivamente sparito, archiviato come l'infatuazione passeggera di un istante: beh, mi sono bastati pochi secondi di ascolto per cancellare queste titubanze da miscredente e provare il piacere di riaccendere una fiamma mai del tutto sopita: i Muse, nel pieno della loro maturazione artistica e ormai pienamente consci del loro potenziale, calano sul tavolo un carico pesantissimo: il disco più ambizioso e complesso della loro per fortuna ancora breve carriera.

"The Resistance" è profondamente diverso, quasi antitetico rispetto al predecessore "Black Holes And Revelations", disco fondamentalmente semplice nelle sue strutture ("Knights Of Cydonia" a parte) nonostante l'estrema variegazione di influenze e sonorità da canzone a canzone; "The Resistance" è più compatto, più coeso, le composizioni sono più dilatate in lunghezza, ricche di cambi di tempo come non ne vedevamo dai tempi di "Citizen Erased": ad un primo impatto questo album può quasi apparire come una fusione tra il senso della melodia ora elettronica e aggressiva ora struggente e intimista di "Absolution" e lo straniamento psichedelico da catastrofe imminente tipico di alcuni frangenti di "Origin Of Symmetry", il tutto ammantato da un'aura di sontuosi arrangiamenti elettronici e sinfonici che consentono a "The Resistance" di brillare di una luce propria, la luce della creatività e dell'ispirazione con cui questi raffinatissimi artigiani del suono illuminano ogni loro singola creazione.

Il ritorno a sonorità più incisive e taglienti rispetto al recente passato è sancito da canzoni come l'hard rock elettronico distorto e imbevuto di psichedelia di "MK Ultra", micidiale mix di melodia disperata e furia sonora inespressa o meglio ancora "Unnatural Selection", sette minuti scanditi da un riff incendiario e nevrotico, dalle ritmiche serrate di Matt Bellamy e da un ritornello dall'incedere epico e incalzante, che a metà dal brano sfocia in un intermezzo lento quasi doomeggiante in cui la chitarra distorta di Bellamy e il basso di Chris Wolstenhome si avventurano sperduti creando un'atmosfera da scenario desolato post-industriale, per poi chiudersi con il frastornante tema iniziale. Episodi decisamente meno ambiziosi ma ugualmente ben riusciti sono invece la trascinante power-ballad "Guiding Light", sublimata dalla stupenda prestazione vocale di Matt Bellamy e il groove malandrino e riverberato di "Undisclosed Desires", che rappresenta il trait d'union più evidente tra "The Resistance" e il suo predecessore BH&R.

Facile pronosticare un futuro di onnipresenza nelle scalette dei live della band per canzoni che sprizzano museianità da ogni singola nota come il groove marziale e tracotante appena contaminato da un pizzico di psichedelia di "Uprising", in cui si fondono alla perfezione il clap-handing di "Time Is Running Out" e i loop soffocanti di "Supermassive Black Hole" e la quasi titletrack "Resistance", che inizia come una ballad intimista à la "Sing For Absolution" per poi sfociare in un trascinante chorus spaccatimpani che si perde in una rarefatta coda strumentale, mentre tra gli episodi più sorprendenti e sperimentali c'è sicuramente l'ipnotica atmosfera retrò di "I Belong To You", che mostra un Matt Bellamy in vesti quasi crooneristiche che si cimenta con il francese in un intermezzo orchestrale ripreso da Camille Saint-Saens, anche se l'apice assoluto, il capolavoro del disco è senza ombra di dubbio la sognante utopia di "United States Of Eurasia", che inizia come una soave ballata con un Matt Bellamy da pelle d'oca, per poi acquisire forza ed epicità, dipanandosi tra orchestrazioni arabeggianti e linee pianistiche chopiniane che si rincorrono, dando vita a questa maestosa e affascinante che si può definire a pieno titolo che la "Bohemian Rhapsody" dei Muse.

Piccola nota di demerito infine per "Exogenesis", suite conclusiva divisa in tre parti per un totale di tredici minuti che, nonostante le spettrali orchestrazioni da giorno del giudizio della prima sezione, "Overture", in cui Bellamy torna a cantare con il falsetto allucinato e penetrante di "Micro Cuts" non riesce a convincere come discorso musicale unico nel suo proseguo, dando una vaga idea di incompiutezza, che tuttavia non incide assolutamente sul giudizio finale di questo meraviglioso album che secondo me non ripeterà il successo commerciale di "Absolution" e "Black Holes & Revelations", per il semplice fatto di essere strutturato in maniera completamente diversa e più ostica dei due illustri predecessori ma, grazie alla sua raffinatezza, alla capacità di mostrare una band sempre immediatamente riconoscibile all'orecchio ma al tempo stesso sempre capace di rinnovarsi e alla miriade di sensazioni sonore diverse che riescono ad amalgamarsi alla perfezione creando un unico e maestoso caleidoscopio musicale diventerà sicuramente un pilastro imprescindibile per chi veramente ama e apprezza questa band.

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