A oltre tre anni dal successo mondiale di "Black Holes and Revelations", i Muse tornano sulle scene col loro quinto album, dall'emblematico titolo "The Resistance". Va subito detto che i tre anni sono serviti alla band per lavorare con tutta calma sul nuovo materiale, registrato quasi interamente in Italia e prodotto dalla band stessa, senza l'ausilio di grandi nomi quali in precedenza erano stati Rich Costey e Mauro Pagani.

Quello che il gruppo di Bellamy ci presenta oggi è un disco che si discosta in maniera netta e convinta dal sound e il groove della produzione precedente, privilegiando soprattutto quei lati (operistici o elettronici, a seconda dei casi) che in "Black Holes" avevano lasciato spazio alle chitarre, qui invece quasi sempre in secondo piano. Ciò che colpisce di questo disco, fin dal primo ascolto, è però ancora una volta l'eterogeneità e vastità del progetto, capace di fondere generi musicali apparentemente in antitesi quale il prog rock e l'R'n'b, giungendo infine a calcare i sentieri del rock operistico intravisto precedentemente in "Absolution". Soprattutto per questo, risulta piuttosto arduo riuscire a dare un giudizio complessivo sull'opera, un giudizio che riesca a giustificare episodi minori (e ce ne sono parecchi) inseriti al solo scopo di "vendere", e brani in cui invece la consapevolezza tecnica ma soprattutto interpretatitva di Bellamy ci mostra quali siano realmente le capacità di questo gruppo.

L'iniziale ritmo marziale di "Uprising" fa dell'alienante riff di tastiere un intro geniale ma anche fuorviante sulle reali direzioni del disco. Pezzo senza infamia e senza lode, Uprising si segnala soprattutto per il suo groove "da singolo" che la rende una hit perfetta. La successiva "Resistance", invece, dopo un intro evocativo si concede un arpeggio di pianoforte e una melodia soffusa poggiata sulla ritmica incalzante di Dominic Howard, per poi sfociare in un ritornello che sembra recuperare il patetismo di "Absolution" sposandolo però con la perfezione formale di "Black Holes". Il pezzo si chiude con un outro che vede un Bellamy in buono spolvero vocale dopo un album, come il precedente, sottotono in molti episodi. Al cantante trentunenne sta infatti l'obbligo di tenere insieme i pezzi, con un'interpretazione più coerente e conseguente e forse anche meno trattenuta, rispetto a "Black Holes" che invece aveva visto un continuo cambio di registro e approccio vocale ai pezzi. La terza traccia, "Undiscoled desires", prosegue il percorso iniziato con "Supermassive Black Hole", ambientandolo però in un'atmosfera R'n'b che strizza l'occhio al mercato U.S.A. risultando piuttosto plasticosa ed indigesta. Anche la successiva "United States of Eurasia" non riesce più di tanto a colpire l'ascoltatore, nonostante il bell'intro voce e piano e l'intermezzo arabeggiante che cita i Led Zeppelin: troppo evidente, infatti, è il richiamo all'epica un po' tronfia dei Queen, che qui si materializza in coretti piuttosto kitsch (molte caratteristiche dei Queen risultano kitsch se estrapolate dal loro contesto). La ghost track che riprende un "Notturno" di Chopin (ribattezzata curiosamente Collateral Damage) chiude idealmente la prima parte del disco, con Bellamy che ci mostra le sue doti - più interpretative che tecniche, in questo caso - al pianoforte.

La seconda parte del disco si apre con l'epica pop di "Guiding light", pezzo molto à-la U2 che parte molto bene ma si perde un po' nella melodia stropicciata del ritornello, per poi nobilitarsi nuovamente nel primo vero assolo di chitarra e nel bridge in cui Bellamy ci dà un ennesimo saggio della sua estensione vocale. La sesta traccia, "Unnatural Selection", è invece la più vicina alla ritmica quasi punk del secondo disco, perchè dopo un breve intro voce-organo la chitarra si lancia in un riff simile a quello di "New Born" e in un ritornello accattivante per quanto non particolarmente originale. Dopo un assolo al rallentatore la canzone riprende il tema iniziale lasciando poi spazio al bell'arpeggio di tastiere e al falsetto di "Mk Ultra": sembra quasi di sentire i Coldplay suonati dai Dream Theater, per quanto blasfemo possa apparire. E se è doveroso lodare la band per il buon lavoro di produzione fatto finora, sicuramente non si può fare altrettanto per quanto riguarda le liriche, sempre troppo patetiche e sopra le righe nel loro tentativo di tracciare un'immagine "orwelliana" della realtà. Ma proseguiamo. La melodia di "I Belong to You (Mon Cœur S'ouvre à ta Voix)" si poggia su un bel pianoforte ritmato, per poi annullarsi in un bridge quasi da musical in cui Bellamy canta in francese formando un tutt'uno con i violini in un finale da film anni Cinquanta. Pezzo originale negli intenti e finalmente ben riuscito e compatto anche nell'esecuzione.

Di fatto, "I Belong to you" chiude il disco in sè, lasciando spazio a qualcosa di completamente diverso. La parte finale di "The Resistance", infatti, si discosta completamente da quanto proposto fino a questo momento dalla band. "Exogenesis" è infatti una sinfonia in cui riusciamo finalmente a scorgere in tutta la loro pienezza le potenzialità della band e soprattutto di Bellamy, una sorta di Tarantino della musica del Duemila, capace di unire sacro e profano all'interno di un solo disco, spesso anche all'interno di una sola canzone. Il falsetto quasi operistico della Overture cita indirettamente i fasti di "Micro Cuts", con il cupo arpeggio dei violini e la chitarra a supporto di basso e batteria. L'intro di "Cross-Pollination" è invece affidato al pianoforte, col richiamo nostalgico ad "Absolution" anche nel prosieguo epico à-la Apocalypse please, che tocca l'apice emotivo e lirico del disco. Disco che si chiude con la melodia rarefatta e il pianoforte romantico di "Redemption", in uno dei più appassionati e sinceri omaggi alla musica classica fatto negli ultimi tempi da una band rock. Per comporre questi pezzi ci vuole meno di quel che si pensi; il difficile sta nel riuscire a proporli con serietà e convinzione, come la band di Bellamy è di fatto riuscita a fare.

Album che quindi stupisce per l'eterogenità degli arrangiamenti e delle soluzioni melodiche e di produzione, laddove però cominci ad intravedersi una certa coerenza di fondo nel progetto che i Muse stanno portando avanti ormai da dieci anni. Forse questa band non riuscirà mai a fare il grande salto (che pure meriterebbe) verso territori meno rassicuranti e intuibili, e forse non riuscirà neanche ad entrare nella storia della musica rock - ma sicuramente gode di ottima salute, e sicuramente può e potrà ancora dire la sua in futuro, quando forse la pressione sarà minore e sarà più facile per Bellamy concentrarsi su ciò che realmente è in grado di fare. Per il momento, comunque, i Muse si mostrano in buona forma con un disco che complessivamente supera il precedente, e che, pur discontinuo e imperfetto, conferma il trio come una delle band mainstream più interessanti e meno scontate oggi in circolazione.

Il voto è una media tra i primi 2/3 del disco (***) e l'ultima parte (*****).

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