Hai alle spalle vent'anni di carriera, i tuoi ultimi dischi fanno piuttosto pena e ti appresti finalmente a scrivere qualcosa di nuovo. Qual è la soluzione più conveniente? Semplice: se preferisci evitare la pensione e non vuoi continuare a sfornare lavoretti mediocri, fai un balzo indietro di qualche lustro e cerchi in ogni modo di ricalcare fedelmente i fasti di una volta. La cura migliore per le incertezze sul futuro è fare i conti col proprio passato; o almeno così sembrerebbe per i My Dying Bride, tornati rapidamente in scena con questo EP nuovo di zecca dopo la sbrodolata colossale di "Evinta".
Questo tuttavia non è un EP come tanti altri: in esso non troverete brani inediti di dubbio gusto (più comunemente noti come "scartini"), cover, estratti live e inutilità varie, ma un'autentica riappropriazione d'identità della band espressa in un'unica, poderosa suite di 27 minuti. Impresa abbastanza azzardata, se consideriamo che di brani così articolati e ambiziosi dalla Sposa non ne avevamo mai visti, nemmeno con le mitiche "Symphonaire Infernus Et Spera Empyrium" e "The Return Of The Beautiful", risalenti ai primi '90; ed è proprio a quel periodo che "The Barghest O' Whitby" è visceralmente legato.
Una brusca retromarcia e un'altrettanto improvvisa ripresa, dunque: lasciate perdere (per fortuna) le ridondanze inutili e pacchiane di "Evinta"; abbandonate nel ripostiglio (si spera per sempre) le lagne sconsolate di "For Lies I Sire"; sporcate di pece e polvere il gothic di "A Line Of Deathless Kings", e poi buttatelo nella macchina del tempo per un breve viaggio nell'antico e affascinante passato di "As The Flower Withers" e "Turn Loose The Swans". Vedere riesumare tali titoli, oltre a far venire un colpo al cuore (e non a torto), può suscitare un po' di scetticismo, e infatti non dobbiamo certo aspettarci un nuovo capolavoro da quest'operazione, la quale non è altro che un interessante revival per tutti coloro che si sono rotti gli zebedei di sentire la Sposa piagnucolare come un emo qualunque.
Ma non roviniamoci l'ascolto con paragoni tanto inutili quanto forzati: le atmosfere maledette, le melodie lancinanti (e non semplicemente "lagnose"), le chitarre sporche e limacciose, i ritmi strascicati e solenni, le partiture di violino finalmente ispirate e il tanto bramato recupero del death/doom più opprimente degli esordi (nell'inquietante introduzione e soprattutto nel finale tritaossa) fanno di questo EP una preziosa parentesi che sfamerà i fans nostalgici della band. Una parentesi, appunto, perchè di questo si tratta: adesso toccherà ai nostri baldi becchini dello Yorkshire decidere se continuare il discorso in sede di full-length, ufficializzando così un ritorno alla qualità (o quantomeno alla decenza), oppure se perseverare diabolicamente sulla strada della mediocrità...
[3,5/5]
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