Rispettando il canovaccio proposto dai ''The Divine Comedy'', la piccola orchestra dei My Life Story (composta da 12 elementi) tentò di imporsi al grande pubblico britannico, senza però ottenere lo stesso successo dei sopracitati predecessori. Probabilmente perchè nell'anno del debutto, il 1995, il ''britpop'' fu letteralmente monopolizzato dalla faida Oasis vs Blur (basti pensare ai rispettivi album lanciati dai due gruppi in quell'anno), al punto da oscurare qualsiasi altra uscita discografica made in UK.

Se a questo aggiungiamo il fatto che ''The Mornington Crescent'' dei My Life Story era piuttosto distante dagli stereotipi di quel tempo, è ancora più facile capire i motivi di una difficile ascesa. In virtù della premessa, sembrerà banale a dirsi, ma l'aggettivo più idoneo a descrivere il sound della band è ''orchestrale''. L'ispirazione è rintracciabile, a mio avviso, nella pomposità di certi arrangiamenti tipici degli anni '60; al primo ascolto, il primo pensiero va a brani come ''Eloise'' di Barry Ryan. Volendo estremizzare, in alcuni casi, si ha la sensazione che le classiche parti per chitarra ritmica siano sostituite dai violini. Nel 1999 la svolta. Non è difficile intuirne il perchè, ma non voglio perdermi in sterili critiche a proposito di eventuali scelte commerciali, per la serie ''questo è il nostro mestiere, dobbiamo pur campare''.

Via l'orchestra, i restanti 4 membri decidono, complice la timbrica di Jake Shillingford a metà strada tra Marc Almond e Damon Albarn, di mirare verso sonorità propriamente ''brit''. Il risultato è ''Joined Up Talking'', compromesso stilistico realizzato mediante un drastico ridimensionamento delle incursioni sinfoniche, a favore dell'utilizzo di tastiere anni '80 e convenzionali, ma apprezzabili (talvolta pregevoli) arrangiamenti pop. Se "Empire Line'', una sorta di trait-d-union, prova a coniugare il vecchio sound con le future intenzioni (strofa lenta e orchestrale, ritornello solare, di quelli da canticchiare sotto la doccia), le accattivanti ''If You Can't Live Without Me Then Why Aren't You Dead Yet'' e ''It's A Girl Thing'', nel repertorio dei Blur, sarebbero state delle sicure hit.

''Sunday Tongue'', perfetto esempio di pop song malinconica ma non troppo, è semplicemente deliziosa (curiosa la strofa ''elettrica'', assolutamente fuori tema, laddove qualsiasi altra band avrebbe inserito un intermezzo strumentale). Prima o poi, mi sarei aspettato un calo; peccato che duri per tutta la metà del disco, a causa di brani insipidi, seppur orecchiabili, come ''Walk/Don't Walk'' e ''The New New Yorker''. Dopo ''Neverland'', classica ballata da boyband, il guizzo rock di ''Stalemate'' è una ventata di freschezza quasi inaspettata; la raffinatissima ''Two Stars'' (ma esiste il progressive pop?) chiude il disco, riuscendo a farmi dimenticare qualche episodio non felicissimo.

Niente di trascendentale, ma un ascolto disimpegnato potrebbe non dispiacervi.

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