Nati circa una decina di anni or sono ("Truffles of Love", il loro debutto, risale al 1999), i Naevus sono un duo inglese formato da Lloyd James e Joanne Owen.
Seppur ci si ostini ad incasellarli entro i fumosi confini di un genere informe e mellifluo come il folk apocalittico (sarà per la chitarra acustica e la voce baritonale di James, sarà per l'amicizia che unisce lo stesso a noti personaggi della grey area), i nostri sembrano piuttosto trarre ispirazione da vecchie glorie come Stooges e Buzzcocks (e non è un caso che la formazione nasca suonando cover di suddette band), senza però rinunciare alla tentazione di emulare le sonorità di una certa dark wave-ottantiana (Joy Division, Sisters of Mercy e primi Death in June su tutti).
E se certo la musica di James e della Owen non pare brillare per una eccessiva originalità, sarebbe comunque ingiusto negare loro una certa ispirazione nel portare avanti la baracca: ispirazione che anima lavori che non fanno gridare al miracolo, ma che si fanno comunque apprezzare, nei ranghi e nei limiti di una band di secondario rilievo entro il panorama dark/rock odierno.

Con il buon "Silent Life", loro ultima uscita discografica (siamo nel 2007), i nostri percorrono con coerenza il loro cammino, finendo per farsi abbracciare dalle viscide spire di un cantautorato maledetto nello stile del grande Cave.
A richiamare la scena apocalittica, abbiamo comunque tutta una serie di guest-star di lusso, come John Murphy (SPK, Death in June, Current 93 ecc.), Rose McDowall (Current 93, Death in June ecc.) e Matt Howden (Sol Invictus, Sieben).
Eppure i contributi dei personaggi menzionati non riescono a far dimenticare le evidenti influenze mutuate dal rock settantiano, dal blues, dalla psichedelia. Tant'è che Murphy abbandona il tocco ritual-marziale per improvvisarsi batterista a tutti gli effetti (sì, quattro quarti, cambi di tempo e roba del genere!); l'ugola fatata della McDowall, relegata a ruolo di accompagnamento canoro, viene risucchiata avidamente dalla distorsione delle chitarre e dalla irruenza dei beat percussivi; Howden, dal canto suo, strapazza all'inverosimile il suo violino, lasciando da parte gli scenari decadenti e poetici tessuti in seno ai Sol Invictus per abbandonarsi ad allucinazioni fumose che sembrano scaturire da un epico duello fra Warren Ellis e Simon House.

L'opener "Spring Summer Railway" lascia a bocca aperta: chitarra elettrica, batteria apocalittica, incedere morriconiano e una voce che sembra resuscitare il Cave dell'era "The Good Son"/"Henry's Dream".
Il brivido elettrico della chitarra di Greg Ferrari, del resto, percorrerà l'intero album, animando le otto ballate contenute nell'album, adombrando più di una volta la chitarra acustica di James e il basso corposo della Owen, vera ossatura del Naevus sound.
Da citare senz'altro la paranoica "Bobby Shafto", straziata dagli arzigogoli del violino stridente e fischiante di Howden, la countryeaggiante "Hasty Bastard", l'iper-ballatona "The Ballad of Benjamin Munt", un fiume elettrico di otto minuti che non mancherà certo di entusiasmare.

Il folk apocalittico, in realtà, avanza imperterrito nei bassifondi sonori dei brani, trainati dalla chitarra acustica di James, ferreo detentore della paternità di testi e musiche.
Ed è interessante notare come la musica dei Naevus, spogliata della scorsa rock, si assesti sulla ballata tipica del folk apocalittico, messa a punto venti anni or sono da Douglas Pearce.
Del resto, se vi capiterà di assistere ad una esibizione dal vivo del duo, il discorso vi parrà chiaro: privato dei contributi degli ospiti, il sound povero dei Naevus si riduce ad un folk apocalittico senza compromessi. Ma in studio, sommerso dall'elettricità delle chitarre e dall'irruenza delle percussioni, il folk apocalittico affiora in superficie solo a tratti, come nel ritornello di "Kill Your Friends" (impreziosita da laconici rintocchi di piano in tipico stile Death in June) o nell'incipit acustico della conclusiva "Dominic Song".

Insomma, questo si sarà capito, ai Naevus l'etichetta di folk apocalittico sta davvero stretta, e per questo "Silent Life", che non sembra presentare particolari punti di cedimento (se non nei due minuti scarsi della zoppicante "White Love"), è calorosamente consigliato a tutti gli amanti del rock acido e decadente (ma anche ironico), ed in particolare a tutti coloro che guardano con struggente nostalgia alle opere di metà carriera del Re Inchiostro. 

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