Quando si pensa alla Chicago degli anni 80, il primo nome che viene in mente è quello di Steve Albini, leader di Big Black e Rapeman, due formazioni imprescindibili della scena rock underground americana di quel fondamentale decennio.

Ma il capoluogo dell’Illinois vantava già allora diverse altre realtà musicali, avviandosi a diventare, negli anni 90, una delle capitali del rock mondiale, con una scena tra le più variegate di sempre: industrial (Ministry, NIN), slo-core (Codeine), indie-rock (Smashing Pumpkins), noise-rock (Jesus Lizard), math-rock (Shellac), post-rock (Tortoise) sono i generi-cardine di fine millennio, e Chicago poteva vantare almeno un nome di spicco per ciascuno di essi. Un altro filone, forse minore, forse solo dimenticato, è quello aperto dai 'Naked Raygun' del cantante Jeff Pezzati e del chitarrista John Haggerty.
Trattasi di un punk-rock semplice, orecchiabile e trascinante; all’apparenza ripetitivo, in realtà molto eclettico. Tra l’hardcore melodico west-coast à la Bad Religion e l’emo-core dei figli degli Husker Du, quella dei Naked Raygun rappresento’, in un certo senso, una “terza via” in direzione di una musica tanto fragorosa quanto facilmente assimilabile.

“Jettison” fu il loro terzo, irresistibile LP, datato 1988. La musica dei Raygun, pur possedendo un umore squisitamente americano, fa tesoro della lezione dei maestri inglesi del punk e della new wave di dieci anni prima. La burrascosa “When The Walls Come Down” e la devastante cover degli Stiff Little Fingers “Suspect Device” (impossibile ascoltarla seduti in poltrona!) rivelano un chiaro collegamento col cosiddetto “punk77”.
D’altra parte, non è difficile scorgere, nel canto robotico di “Walks In Cold”, nei costrutti nevrotici di “Live Wire” (un magma di dissonanze spalmato su di una batteria zoppicante; una strofa angosciata che si sfoga in un refrain sontuoso), nell’ epica tormentata di “Blight” , l’influsso della new wave d’Oltremanica. Ma lo spettro di stilemi passati in rassegna (nonchè sapientemente assimilati e rielaborati in maniera originale) dai Raygun è ancor più esteso: c’è spazio anche per la chitarra stridente, il canto convulso e il ritmo concitato della title-track (il numero più albiniano della parata), le boriose oscillazioni à la NY Dolls di “Ghetto Mechanic” e, addirittura, la potente progressione metal di “Coldbringer”.

L’universo dei Naked Raygun è conteso tra i due estremi di un grintoso power-pop (“The Mule”, con quella linea melodica di chitarra che si riallaccia alla seminale “Strange Notes” degli insostituibili Germs) e di un criptico noise-rock (“Hammerhead”, con quell’attacco dissonante, quella batteria isterica e quel canto in sordina, è degna dei migliori Sonic Youth).
Se la conclusiva “Vanilla Blue” costituisce una sorta di compendio della proposta raygun-iana, i due capolavori del disco restano l’opener “Soldiers Requiem” e “Free Nation”, due anthem dal piglio carico ed entusiasta, due alti canti di speranza, due aneliti alla libertà, due commoventi, sinceri e aggraziati esempi di “canzone rock”, nella sua forma più pura, schietta e genuina: i 4 accordi, la strofa tirata, il refrain accorato, sorretto dai doverosi cori di rinforzo e dalle rullate marziali della batteria…

L’avventura dei Naked Raygun terminerà (dopo un paio di dischi) nel 1991; la loro eredità sarà raccolta dai 'Pegboy', anch’essi guidati da Haggerty, impegnati, in un era di destrutturazioni, manipolazioni e contaminazioni, a proseguire, senz’alcun anacronismo e con innegabile freschezza, in quell’ estetica dell’essenzialità, della spontaneità e dell’immediatezza, che ha permesso ai Naked Raygun di entrare a far parte del novero dei “classici”.

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