C'è qualcosa di più desolante del lungomare di Ostia? Non che le cose siano cambiate poi molto dal 1978. Ci mettiamo altri vestiti, guidiamo macchine più grosse governate dall'elettronica, telefoniamo senza inciampare nei fili, ma chi sa estraniarsi da un'esistenza che mira alla casa e la famiglia con due bambini che giocano sul pavimento tutelati da un contratto a tempo indeterminato depositato presso un'azienda vicina in cui arrivare alla pensione, chi lo fa non è ancora per niente fiducioso sul futuro del genere umano. Chi pensa è quasi sempre pessimista. Ma perchè? Nel '78 fra chi pensava c'era Nanni Moretti, qui giovane e coi capelli lunghi, il quale affida al suo alter-ego Michele Apicella il compito di descrivere una sconfortante generazione di sessantottini svuotata di ogni forza ed ideale, pigri, arresi e stanchi. Un po' come l'afa d'estate quando stai in città. Non c'è una vera e propria trama, nessuna storia che valga la pena seguire, è un cinema di frammenti: frammenti di Roma, anonima e solitaria, priva di qualsiasi riferimento ai luoghi capitolini stracelebrati in altre occasioni, Roma che qui potrebbe essere una qualsiasi altra periferia d'Italia in estate; frammenti di Michele, critico e disadattato sociale, Mirko, angosciato, Vito e Goffredo, entrambi che lasciano svogliatamente passare i giorni, Cesare, sposato e cornificato, amici vitelloni che ingannano il tempo fra una silenziosa serata al bar e sedute di auto-analisi in cui si raccontano, si registrano, esaminano le proprie posizioni senza mai arrivare ad una conclusione, e quando non sanno che fare improvvisano, sempre confusi, vanno a vedere sorgere il sole senza rendersi conto che spunta alle loro spalle. Che vogliamo? Che facciamo? Faccio cose, vedo gente. Ma cosa? Chi? Dove? Siamo scontenti, ma perchè?

Michele conduce un'analisi spietata (e quanto più possibile lontana dai temi d'attualità) di un mondo giovanile in cui anche lui è immerso, gli sfoghi della sua frustrazione si rivolgono all'unico ambiente-materasso in cui è sicuro di poter rimbalzare: le quattro mura domestiche, solido castello dell'incomunicabilità. Michele però, alla fine, è l'unico a mantenere l'impegno di andare a trovare Olga per restare in silenzio di fronte a lei, mentre gli altri mangiano angurie o si perdono per le vie di una Roma mai così morta, ideale teatro degli orrori. Certi film si possono vedere solo d'estate. Oggi, come ieri, giovani sparano ai cani, danno fuoco ai senzatetto, diventano mostri per vincere la noia. Andiamo verso un futuro che abbiamo sempre visto come distopico nei vecchi racconti di fantascienza, controllati ovunque da grandi fratelli, viziati dalla tecnologia che volendo neanche ci fa uscire di casa per fare la spesa, infreddoliti dai monitor nei rapporti umani, ronde di quartiere per una sicurezza sempre più limitante, autovelox e telecamere ad ogni semaforo, superuomini come punti di riferimento. Quando si voleva dipingere tale futuro, decenni fa, si dava una forma rotondeggiante agli oggetti, ai palazzi, alle automobili, tutto veniva rappresentato con gli angoli smussati per sembrare lontano; ora io guardo la foto un'Alfa 33 e di una Giulietta, e la direzione dell'evoluzione mi appare chiara. Avevamo terrore di quel futuro ma lì ci stiamo tuffando a capofitto. Eppure ne sono sicuro, non è sempre stato così, ed è il motivo per cui mi piacciono quelle poche volte in cui parlo con mio padre, la sua festa del Redentore veneziana di quando aveva 14 anni e saltava da una barca all'altra, quando vendeva il latte a Monza ed entrava nelle ville dei ricchi che costeggiano il parco, dei suoi quindici mesi al militare in cui tornò a casa solo tre volte perchè si divertiva troppo. C'è chi si crogiola nel pessimismo perchè lì ci sta bene, io no.

La sera, spesso, esco a farmi un giro per il quartiere, specie in queste sere d'estate in cui la casa mi appare meno rifugio e più gabbia; passo davanti ai bar aperti con la gente fuori seduta ai tavoli disposti sui marciapiedi, davanti ai parcheggi notturni con i gabbotti desolanti dei custodi, ai tabaccai automatici che espongono le macchinette 24ore, capto quel che posso dei discorsi che incrocio alle fermate del tram, agli stop, ai punti di ritrovo. La parola che mi capita di cogliere più spesso è "crisi". Ne parla il marito alla moglie, la moglie al marito, l'amica all'amico, l'amica all'amica, l'amico all'amico, il compagno alla fidanzata, il papà al figlioccio. Apro una pagina di notizie e trovo che l'Italia è ottava nell'elenco dei paesi che rischiano la bancarotta, quasi fosse una gara. Crisi, sarà tua la colpa di tutto questo pessimismo che invade le strade?

Eppure nel '78 non c'eri, erano anni di piombo ed avevi forse altre forme, ti sei travestita poi, ma sei comunque e sempre una moda, sei un argomento di conversazione da parrucchiere, come gli articoli calcistici o l'ultimo film che è capitato di guardare. Dal mio parrucchiere domani, dopo aver parlato dell'Inter, vedrò di parlare di "Ecce bombo", magari mi riuscirà pure meglio.

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