I Napalm Death sono una delle poche band ad avere suonato due generi diversi e ad essere diventati dei mostri sacri in entrambi.

La band nacque in Inghilterra attorno all’84, quando imperversava la NWOBHM (acronimo per New Wave Of British Heavy Metal) e, oltreoceano, il Thrash della cosiddetta “Bay Area”. I nostri, appena adolescenti, riuscirono però a coniare un sound che per la prima volta poteva essere definito “Metal estremo”, molto distante sia dalle correnti sopraccitate che dalle nuove tendenze Death Thrash che iniziavano a fare capolino in band come Possessed e Sepultura.

Il loro storico esordio dell’86, “Scum”, diede un letterale scossone a tutto il panorama Metal: ritmiche e tematiche Punk Hardcore (socialmente impegnate) si mescolavano con un’attitudine e una violenza spiccatamente Metal, il tutto condito da una voce sovraumana (probabilmente il primo growling). Nessuna forma di melodia, ventotto canzoni per trentatré minuti di musica pressoché inascoltabile: i giovanissimi Napalm Death avevano generato il Grindcore, un pugno nella pancia anche per chi era abituato agli Slayer, ai Venom e compagnia bella. Ma i nostri abbandonarono ben presto questo genere: a partire dal loro quarto Full Lenght uscito nel 1992 (escludendo varie Peel Sessions ed Ep sconosciuti), “Utopia Banished”, si dedicarono al Death Metal, tipologia che ormai aveva acquistato una propria fisionomia e che godeva di straordinaria fortuna. Con quella sola release, questo complesso inglese penetrò violentemente nell’ Olimpo dei Death Metaller, candidandosi come una delle band migliori e più attive e distinguendosi per saper mettere in musica le idee platonica di “rabbia” e “violenza”.

Il disco che mi accingo a recensire è solo una goccia nell’ oceano della loro monumentale produzione, ma rappresenta secondo me il punto più alto mai raggiunto dal gruppo in fatto di potenza e di adesione ai canoni del Death metal, anzi, sentendo questo lavoro si potrebbe decisamente asserire che questo è IL Death Metal: forse mi sbilancio in questo modo anche perché è stato il disco che mi ha iniziato a questo genere nel lontano 1999 (rimasi infatti folgorato dopo avere visto il video di “Plague Rages” in una puntata di "Beavis & Butthead”). Uscito nel 1994 dopo il suddetto “Utopia Banished”, è rimasto un capitolo ingiustamente ignorato dalla critica e dai fan: uno degli elementi distintivi di questo album è a parer mio il cantante, indiscutibilmente il migliore che i Napalm Death abbiano avuto nelle loro fila. E’ costui infatti a fare la differenza e a rendere il cd, con il suo growling dalla potenza inaudita (molto più di tanti cantanti Death e Brutal), un caposaldo del genere. Rabbia pura quella urlata da “Barney” Greenway, la perfetta consorte della proposta musicale di “Fear, Emptiness, Despair”.

Da notare che, di disco in disco, si è sempre potuto osservare con piacere un miglioramento del livello tecnico: a partire dalla quasi completa ignoranza strumentale degli esordi, si arriva in questo album (e forse già nel precedente) a standard medio alti, che di certo non sfigurano all’interno dello scenario Death metal. I tempi di batteria sono generalmente alti e il drummer si esibisce in numeri parecchio interessanti; di certo non può essere paragonato a tanti altri batteristi dell’ambito, ma da una grande prova di originalità, più ancora che di perizia. Lo stesso può dirsi per i chitarristi, che eseguono un lavoro di indiscutibile potenza e impatto. E’ un peccato che il bassista, il mitico Shane Embury, non riesca ad emergere ed a dimostrare il proprio talento in maniera adeguata, ma questo purtroppo è un limite comune a molti lavori di questo genere. Tutte le canzoni sono strutturate in maniera eccellente, tra rallentamenti (pochi) e sfuriate velocissime, anche se alla fine prevalgono delle specie di Mid-Tempo (se mi è consentito usare questa parola).

Difficile citare qualche pezzo rappresentativo: probabilmente quelle che più esprimono l’essenza del lavoro sono l’opener “Twist The Knife”, il singolo (indimenticabile) “Plague Rages” e la micidiale “Hung”. Ma ciò che più stupisce di questo disco sono le capacità comunicative di questo quintetto: ogni canzone esprime una rabbia e una violenza che viene esplicata anche a livello concettuale nelle liriche. La denuncia sociale non è una questione affrontata con calma e ottimismo nei confronti di un futuro più giusto né con la spacconeria del Punk, ma con nichilismo e con feroce consapevolezza. Le urla di Barney non sono le urla di un sovversivo, ma quelle di chi non crede più neanche nell’abbattimento del sistema, un sistema che possiede e controlla tutti in ogni momento: e poi c’è il disprezzo, l’odio verso una società ingiusta che si nutre dei più deboli. Si può dire che, in questo senso, proseguano la strada iniziata nel lontano 1986, ma lo fanno con rinnovata cattiveria. Se poi si pensa che i nostri seguono questa linea di pensiero anche nei loro rapporti con le case discografiche (nella loro carriera hanno litigato con le Label più importanti del genere, dalla Earache alla Columbia), si può apprezzare maggiormente apprezzare il messaggio dei loro lavori.

Un cd suonato con passione per una delle Death Metal band dalla carriera più lunga e feconda, che in anni e anni di carriera non ha fatto che sfornare buoni lavori senza lasciare che la tensione o il livello qualitativo calasse. Per quanto mi riguarda “Fear, Emptiness, Despair” rappresenta l’apice creativo del complesso: Death metal senza compromessi, iracondo e di un impatto devastante, consigliabile a tutti gli amanti del genere ma anche a chi vi si accosta per la prima volta. L’immediatezza di questo cd riuscirà ad accattivare l’ascoltatore e a mettere ben in chiaro cos’è il Death, cosa suscita e come deve essere suonato.

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