Pochi giorni prima della Amos, un'altra cinquantenne famosa anch'essa per le sue doti di storyteller, pubblica un album intimo e malinconico, dopo un periodo di 13 anni in cui si è cimentata nella musica folk (con un disco di sole cover) e in un'opera dal grande valore culturale che racchiude un secolo di poesie per l'infanzia.
Parlo di Natalie Merchant, voce e mente dei 10,000 Maniacs, e dalla seconda metà dagli anni '90 artefice di una carriera solista forse non tra le più prolifiche ma sicuramente tra le più apprezzabili.
In questi ultimi vent'anni ha realizzato tre capolavori nell'ambito del rock-folk (Tigerlily, Ophelia e Motherland), una raccolta di cover di brani folk (che però a parer mio non ha grande valore musicale) e infine quattro anni fa quella raccolta di 26 brani scritti trasportando in musica una serie di poesie per bambini dell'epoca vittoriana.
Natalie Merchant non è solo un self-titled album, ma è qualcosa di incredibilmente profondo, un viaggio all'interno della mente della cantante, che ci racconta com'è avere cinquant'anni e rendersi conto che la propria vita familiare (divorzia dal marito presumibilmente nel 2012) non la soddisfa più.
Su questo concetto gira il primo singolo estratto "Ladybird", in cui la Merchant canta "Maybe it's time to fly, time to fly away", unendo quelle che sono un po' tutte le sue precedenti esperienze musicali a livello di sound creando così un brano familiare e davvero ben bilanciato.
Natalie non sperimenta, non tenta di sorprenderci con effetti speciali, ma ci conquista ripartendo da dove si era interrotta nel 2001. Infatti questo album presenta solo sporadiche reminiscenze del puro folk di The House Carpenter's Daughter o dei ritmi incalzanti e sostenuti che troviamo in alcuni brani di Leave Your Sleep.
La track list non è lunghissima, 11 brani per un totale di quasi cinquanta minuti di ascolto, in cui trova ampio spazio anche la parte strumentale che alternandosi alla voce della Merchant crea una particolare atmosfera che ti fa sentire partecipe alle storie raccontate.
Tutto il disco è caratterizzato da musiche ben arrangiate e testi colti e profondi, e mi sento di dover segnalare due pezzi che, secondo il mio gusto personale, colgono l'essenza dell'album: il primo è "Giving Up Everithing", una canzone molto evocativa che parla della liberazione che deriva dall'abbandono di tutto ("Giving up everything, see the whole magnificent emptiness/Gave what I want for how it is, for the stone inside, for the bitterness, for the sweetness at the core of it"); il secondo brano, "The End", è una canzone che venne tolta dalla track list di Motherland -cosa di cui la cantante si pentirà più avanti durante un'intervista- e parla del grande interrogativo che porta con sé la fine, purtroppo in questo brano il prevalere della parte strumentale si sente un po' troppo, anche se per un brano di chiusura non è una scelta inconsueta.
In sintesi un ottimo album, davvero una perla nella produzione della Merchant, che negli ultimi anni non ha smosso tanto gli interessi dei "non addetti ai lavori", ma che ora è tornata con un disco di inediti adatto anche ad un pubblico di più ampio respiro, caratterizzato da un rock-folk con incursioni blues molto raffinato e maturo.
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