Prima di lasciare lo spazio ad una recensione "maschia" (ci proverò).. vorrei colmare una grave lacuna sempre nell'ambito delle quote rosa..
Da single quale sono, ammetto che fare le pulizie mi pesa altroché, tuttavia questa volta cercherò di prestare i massimi accorgimenti nello spolverare questo splendido oggetto d'arredamento d'interno. Eh sì, percepisco una grossa responsabilità nel trattare l'argomento poiché qui si parla del primo lavoro solista di Natalie Merchant, autrice-cantante e, diciamocela tutta, unica ragione d' essere di quel che furono i 10000 Maniacs.
Mi chiedo se si possa chiamare disco d'esordio, giacché la fanciulla fu penna e cuore dell'80% dei lavori dei Maniacs. Non me la sento proprio.. Più che altro mi soffermerei sul tanto atteso processo di sottrazione che da tempo Natalie desiderava attuare, processo che aveva veduto premature scintille in occasione della registrazione dell'mtv unplugged dei diecimilamaniaci nel 1993. Sono convinto, infatti, che Natalie non ne potesse più di quei dischi da giorno del ringraziamento: tacchini farcitissimi di qualsiasi stramberia: e di produzione e di arrangiamenti. Lavori assolutamente indigesti, come l'ultimo "Our time in Eden", molto pretenziosi ma assai dispersivi.
E' piuttosto naturale pensare quindi che, dopo aver mandato a gambe all'aria il progetto dei verdi anni, Natalie si volesse imporre un po' di dieta per poi ripresentarsi, a due anni dall'ultima esibizione in ensemble, imbronciata e low-fi con un lavoro davvero ispirato ed emozionante la cui chiave di interpretazione va ricercata nella foto all'interno del booklet: un salotto, un cane sdraiato su un tappeto, un tipo che strimpella un'acustica, un altro che si gratta la testa e Natalie che gioca a Scarabeo (?) con l'a chitarrista.
Ma ritorno al processo di sottrazione di cui sopra, poiché qui tutto non torna. La teoria vorrebbe che troppa produzione appesantisca una canzone, e questo accadeva con gli ultimi maniacs. Di contro una produzione scarna riporta ad un confronto fresco ed immediato con la struttura. Della serie: il brano sta o non sta in piedi?!
Ecco con Natalie, le canzoni stanno sempre in piedi! Quand'anche ella si facesse accompagnare solo da un suonatore di citofoni siamo certi che avrebbe comunque un senso. Tuttavia è bene ricordare che la voce di Natalie rimane uno degli strumenti più rappresentativi dell'arte del dritto in fondo all'anima. Rimanerne pertanto in raccolto e solitario ascolto può essere esperienza sia magnifica che devastante.
Natalie questo lo sa benissimo, e nel preparare "Tigerlily" (1995) sceglie sì di riappropriarsi di molti "vuoti" ma concede, di grazia, anche diversi pieni. Davvero: l'intensità di alcuni pezzi, resa dall'essenzialità degli arrangiamenti, è davvero disarmante. "Beloved wife": storia al maschile sulla fine di un amore di una vita; "River": dedicata all'attore Phoenix; "I may know the word": bellissimo struggente pezzo di otto minuti; ed ancora "Cowboy romance", "Seven Years".
Se tutti i brani fossero stati di questo tenore, Tigerlily avrebbe necessitato del "parental advisor", poiché solo un cuore maturo può sopportare tali confronti. A stemperare quindi il clangore emozionale ecco inframmezzarsi alcuni brani più sobri: "Carnival", "Wonder" "Where i go", "Jealousy".
Il carattere "da appartamento" di questo disco si percepisce dalla scelta delle orchestrazioni: chitarre acustiche, piano, qualche percussione ed archi sparsi qua e là, dal booklet in carta riciclata, dalle foto in bianco e nero, dalla grafica spartana, dalla totale mancanza di qualsivoglia forma di supponenza (i testi sono tradotti in francese, tedesco e italiano!).
Ma la "pochezza" dei mezzi è inversamente proporzionale agli scuotimenti che genera. Un lavoro mirabile per un'artista che in futuro farà fatica, molta fatica a gestire questo grandioso potenziale lirico e comunicativo.
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