Ultime stille di buon successo internazionale per i Nazareth a seguito di questa loro tredicesima fatica datata 1982, quasi arrivati al momento di essere relegati, per sempre, a gruppo di culto, buono per una scorza dura di appassionati cresciuti con loro sin dagli inizi e con in aggiunta qualche novizio del rock’n’roll, voglioso di avere un quadro esteso del movimento musicale da lui prediletto.
Virtù dei Nazareth: vocalità rugosa e penetrante, personalizzante, del frontman; buona predisposizione e varietà melodico/timbrica del chitarrista; ricerca melodica sempre prioritaria; bell’amicizia e coesione, umana e musicale, fra tutti e quattro i compagni d’avventura.
Limiti dei Nazareth: personalità tutt’altro che straripante; vocalità sì caratteristica, ma di qualità e fascino certo non a livelli di eccellenza; sbandamenti di ogni tipo, negli anni ottanta ed oltre, come classica strategia per restare a galla in un’epoca critica per il rock classico.
Bene, che c’è di buono in questo disco? Non certo l’incipit “Love Leads to Madness” che è purissimo genere Americana, tra Springsteen e Tom Petty per capirci. Fatta per il pubblico USA e lì effettivamente accolta da buon successo. A me personalmente annoia, mentre mi coinvolge la seguente “Boys in the Band”, autenticamente Nazareth: veloce, abrasiva, concisa.
Su “You Love Another” di nuovo pollice verso: è un mantra reggae in stile “The Bed’s Too Big Without You” dei Police: giro di basso dal suono “finto”, datatissimo ed uguale per tutto il tempo, chitarrina in levare, inserti di batteria elettronica e il cantante che non si dà pace che “Lei ama un altro”, senza aggiungere alcunché al concetto. “Gatecrash” a contrasto è un rock’n’roll caciarone, che fa notare vieppiù come il pianista John Locke, ex ospite nei lavori precedenti ed ora accorpato formalmente nel gruppo, imperversi ovunque: nobbuono.
Buono invece “Games” che profuma di autentico hard rock alla Nazareth: voce a tutta, chitarroni ben sonori, andamento declamatorio e glorioso. Così come, e ancor più, “Back to the Trenches”: il gargarozzo grattugioso di Dan McCafferty è a pieno regime, il riff d’impianto è saldo e appagante, i break strumentali creativi e atti a raggiungere lo scopo sempre nobile di far venire voglia di risentire il riff d’impianto. Così si fa. Buona musica. Pesante.
“Dream On”, manco a dirlo, è la ballata (non quella degli Aerosmith) e suona bene, un ovvio singolo anch’esso ben accettato negli USA. Intrattiene alla grande per poi farsi dimenticare subito dopo, a meno di non metterla su una volta a settimana per tre mesi filati visto che è buona, “professionale”, ma ne ricorda mille altre simili. Meglio in definitiva la successiva “Lonely in the Night”, dotata di un certo lirismo anche se artefatta da pennellate di sintetizzatore, mesto tributo al corrente lustro synth pop.
“Preservation” è la peggio del lotto: ballabile (?), falsamente beffarda, arrangiata a cellule ripetitive di chitarra ritmica… che pare assemblata al computer. L’ennesimo ritorno al suono familiare dei Nazareth avviene subito con “Take the Rap”: manco un passaggio di rap però (menos mal), tutto rock’n’roll massiccio, però ingentilito un tantino dal pianetto; l’effetto finale è il più tipico di un ascolto Nazareth: totale genericità nell’ambito del genere, a braccetto con un’altrettanto totale, piacevole capacità d’intrattenimento.
La cosa non vale per la conclusiva “Mexico” la quale, in onore al titolo, vede il dispiegamento di una doppia chitarra flamenco (ah, giusto: da questo disco e per un po’ un secondo chitarrista affianca il membro fondatore Manny Charlton). Anche in quest’opera si realizza la buona abitudine di questa banda di concludere i suoi lavori con un pezzo di “peso”.
Verdetto: il solito disco dei Nazareth da tre stelle piene. 6 ½. 20 trentesimi d’esame. 70/110 di laurea. A proposito… il nome della band non deriva dalla genesi di Gesù Cristo, bensì (esticazzi?) da una cittadina della Pennsylvania, non lontanissima da New York.
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