Dei Nazareth non sapevo niente. Nulla.
Mi accorsi della loro esistenza ricercando una loro canzone in rete per mia madre; già una prima volta successe: in quell’altra occasione conobbi gli Uriah Heep. I miei sensori si misero in moto, “vai che ci scappa un altro gruppone della mad… no, va beh, la battuta è scontata…”

Debaser non ne aveva traccia, ma quantomeno ne indicava la discografia. Scelsi il titolo che mi piacque di più; “Presto, presto”, mi dissi: detto così è pessimo, ma entrai clamorosamente nel mulo e, mentre me ne uscivo con questo “Hair Of The Dog”, targato millenovecentosettantacinque, feci un salto sulla Wikipedia. Bene, la pagina era completa come può essere completo un pranzo di Natale senza i tortellini in brodo di carne serviti nella zuppiera in ceramica bianca. Parola per parola, riporto tutto quanto il testo: “I Nazareth sono una band hard rock formata nel 1968 a Dunfermline, Scozia”. Wow, cavolo… Però forniva, attenzione, la line-up attuale [attuale, no, capito? N. d. A.]. Questo è tutto, come direbbe Bugs Bunny salutando i bambini che lo guardano.

Per farla breve, scoprii due cose: intanto capii di aver beccato probabilmente il loro album più famoso, lessi un #17 US che somiglia di più ad un rango in graduatoria che non ad una sigla di un volo Twa per Minneapolis. Secondariamente, la canzone che conoscevo già proveniva proprio da questo ellepì, ed era “Love Hurts”, ballatone spettacolo. Ordunque? No, dai, fai il serio… Mi resi conto di non aver le condizioni psico-mentali per affrontare una recensione. Convinto di questo, afferrai la spugna per gettarla, ma questa era bagnata e le mie mani sono già fin troppo secche in inverno. “Sarà per la prossima volta, soffice tesoro poroso. ”

Tanto più che un simpatico sito angleterrese (a cui avrei in seguito deciso di linkarvi) mi presentò tante belle cosine e così allor scrissi: "In quel tempo (limmagino nemmeno un sogghigno seppur amaro sulle vostre labbra, amen…) schieravano la formazione originale, ovverosia Dan McCafferty (voce), Manny Charlton (chitarra), Pete Agnew (basso) e Darrell Sweet (batteria), purtroppo scomparso il 30 Aprile 1999 a 52 anni; solo nel 1978 entrerà un secondo chitarrista, Zal Cleminson. Produttore dei quattro un tal Roger Glover, direttamente da un viola più profondo anche del rosso di Dario Argento." Ma sto sparando troppe minchiate, forse…

L’album apre con la “spensierata” title-track, voci isteriche supportate da aggeggi simil-kazoo, riff granitici ed un bel lavoro di mestoli picchiati su padelle in teflon; permane una vaga impressione di “questa-l’ho-già-sentita”. Il tessuto ritmico martellante di “Miss Misery” è ricamato da sciabolate a sei corde e da un cantato aggressivo: hard rock davvero niente male. Si prosegue con la succitata “Love Hurts”, piuttosto nota: nasce da una delicata dissolvenza in tutta la sua classica bellezza da cuore tenero tipico dei rudi musici. Bello il lavoro della chitarra e suadente la voce (per quanto possa essere suadente la voce di McCafferty).

Ma è il momento (ed uso questa parola con il dovuto rispetto) di “Changin’ Times”: si riapre il registro più duro per sei minuti di chitarra in allegria (bello il lungo assolo finale di Charlton) e di microfono tangente l’ugola, davanti ad una batteria essenziale e precisa nella sua ruvidezza. Nulla di innovativo, geniale od imprescindibile: semplicemente buona musica. “Beggars Day” segue la falsariga di quanto suonato prima: ottimo lavoro del basso, chitarra tagliente; ancora un’ottima traccia, perdipiù dal titolo sapor jethrotullesco che non guasta mai. Ancor più bella “Rose In The Heather”, breve strumentale ove, mentre la ritmica dimostra il suo valore, a cantare ci pensa la sei corde, ed è un canto lancinante.

Ultime due tracce: “Whiskey Drinkin’ Woman” è un brano più convenzionale, tendente (a mio personale e vagamente incompetente giudizio – la mia conoscenza in materia è pari ad un album uno dei Lynyrd Skynyrd) al southern rock sia nel titolo che nell’approccio vocale e strumentale. Batteria travestita da metronomo, muro di chitarre e cantato decisamente pacato. Ed infine vennero i nove minuti/quasi dieci di “Please Don’t Judas Me”. Un’accordo crescente fonde sul tappeto di delicati fraseggi di percussione (licenza poetica) in un imponente vocalità. La chitarra è dura quando entra il coro da brividi (potrebbe andare a vanti all’infinito, “Nooo, please, don’t judas meeee…”); il rullante prima ed i tamburi poi non vogliono essere da meno. Chiude il lancinante urlo ancora la chitarra elettrica, sempre più lontana e sofferente. Brano meraviglioso

Bene, la recensione in qualche modo più o meno indegno (da far rizzare i peli ai puristi degli album originali… io stesso, ad esempio) l’ho fatta. I Nazareth - tra l’altro il nome lo trovo fantastico - sono assolutamente da approfondire; l’ellepì è buonissimo, con almeno tre canzoni avamposto del castello dei capolavori, ed una copertina magari più bella e curata dei canoni hardrockettari. Ottima scoperta. 

Peraltro, domani a Nazareth arrivano anche i Re Magi.

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