I Nazareth arrivano col fiato corto al loro ottavo album, il secondo del 1976. Il ritmo di tre dischi ogni due anni, tenuto sin dall’esordio del 1971, cominciava a dare effetti collaterali: nello specifico, avviene che quasi la metà dei brani presenti siano cover, sai com’è…

L’aria stanca ce l’hanno già nello scatto di copertina: il bassista Pete Agnew, tuttora performante, evidenzia la sua incipiente ed inarrestabile perdita di pelo, ma il destino gli riserverà in cambio vita più lunga rispetto ai suoi tre zazzerutissimi, ed oggi defunti, compagni. Il primo ad andarsene, ancor giovane, sarà il batterista Darrel Sweet, quello con naso e bocca emergenti a fatica da barbone, capelloni ed occhialoni in lotta fra di loro: un malaccio se lo è portato via ancora in mezza età, a fine secolo scorso.

Frontman e chitarrista invece hanno avuto come destino lo stesso anno di scomparsa, quello appena scorso. Al cantante dallo stile riconoscibilissimo (una delle raucedini più marcate del rock, una vera raspa al posto delle corde vocali) e dai generosi ricci, è storicamente legato il ruolo di caratterizzatore della proposta Nazareth.

Per quanto riguarda il chitarrista Manny Charlton, in questa fase di carriera anche produttore del gruppo, ecco in mostra i suoi bellissimi, seppur oggi fuori moda, baffi a manubrio, a ‘la peone messicano, adeguatamente canditi di pelo nerissimo. Manny sta infatti per Manuel: l’uomo era di origini andaluse, emigrato in Scozia da giovanissimo. Sono sempre attirato da questi artisti underdog, outsider… (in italiano non esiste parola altrettanto efficace): nessuno li ha mai citati, e mai li citerà, in una qualche classifica di preferenza ovvero come ispirazione, eppure la buona musica sono stati capaci di crearla, e di eseguirla encomiabilmente.

Ecco subito Manny a mordere nell’apertura “Somebody to Roll”: riffone ipnotico, slide scivolosa, miagolii di solista a destra e a sinistra: il classico hard rock dei Nazareth, da 7+, niente di più niente di meno. La prima cover che arriva è poi un rock blues che saccheggia il repertorio di Alvin Robertson del decennio precedente, intitolato “Down Home Girl”: la band lo intostisce a dovere, preparando il terreno per “Flying” la prima, consueta diversificazione dal genere di base del quartetto. Trattasi di una mezza ballata mezza psichedelica, non molto pregnante.

Waiting for the Man” poggia su di un nodoso, poco agile lavoro del basso, a creare una specie di funky hard rock reso straniante dalle scivolate di chitarra da un lato all’altro dell’immagine stereo: tediosa; meglio “Born to Love” col suo ritmo a locomotiva, i suoi arpeggi risonanti, i suoi accordi vibrati. Il povero Manny negli assoli si esibisce per l’occasione in un convincente surrogato di Ritchie Blackmore, che bravo!

A questo punto del disco viene sparata una triade compatta di cover soul blues: la prima è di Joe Tex, su ritmo shuffle e si chiama “I Want To Do (Everything for You)”; la coverizzeranno anche gli Huey Lewis and the News, nel decennio successivo. La seconda s’appella “I Don’t Want To Go On Without You” e trattasi di una ballata soul: meglio la versione di Van Morrison (e grazie…); Dan McCafferty, quando spegne il catarro in gola e cerca di performare di fino, non è competitivo. La passione per i loro maestri neri della precedente generazione è però adamantina e indiscutibile. Senza i maestri di colore a seminare negli anni quaranta, cinquanta e sessanta non ci sarebbe stata trippa per gatti per nessuno, per i Beatles come per i Metallica, per i Queen come per i Pink Floyd… Amen.

I Beach Boys invece erano bianchi, bianchissimi, proprio yankee, ma sempre degli anni sessanta ed allora ecco quella “Wild Honey” del 1967, discreto successo non penetrato in Italia come invece capitò ai singoli successivi di quell’anno e dell’anno dopo. Il lavoro si chiude poi con un rock’n’roll svelto a titolo “L.A. Girls“… i ragazzi trombavano tutte le sere in tournée in America e ce lo fanno sapere.

Non il disco da avere assolutamente dei Nazareth, ma non si può neanche pontificare che sia per completisti, o fans accaniti e ciechi d’amore per i quattro scozzesi. Io ce l’ho, va’!

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