Cosa raccontare, di nuovo e di specifico, a proposito di questa dodicesima opera dei Nazareth (1981), visto che segue l’andazzo delle ultime che la precedono, ossia lo stemperamento dell’originario, casereccio e generoso hard rock a favore di un qualcosa di ben più rotondo, accessibile e “perbenista”? Ah, saperlo! Provo allora a distillare qualcosa da ognuna delle dieci parti che compongono quest’opera.

L’iniziale “Dressed to Kill”, ad onta del titolo, è un rocchetto inoffensivo con tanto di pianetto saltellante suonato dall’ospite John Locke ex-Spirit, però la linea di chitarra armonizzata che la percorre è carina e ben memorabile, similmente al ritornello.

Another Year” profuma intensamente di anni ottanta, grazie ad una marcata ripresa dello stile dei Men At Work, nel cantato e nelle chitarrine mirabilmente bagnate di chorus. “Moonlight Eyes” che la segue subito è un lento insignificante… Non riesco a estrarne qualche caratteristica precipua da sottolineare.

Con “Pop the Silo” arrivano una tantum i Nazareth quelli veri! Il cantante raglia encomiabilmente, il mix elettroacustico è vivo e tosto, nessuna puzza di anni ottanta. È l’unica, autentica concessione alla primigenia ispirazione che ha messo insieme questo quartetto di proletari di Scozia: un classico del loro repertorio. Ma la successiva “Let Me Be Your Leader” restaura subito l’andazzo dei tempi: è reggae al cento per cento! Abbastanza intrigante, ma l’hard rock della banda è andato proprio a farsi fottere. Seguita fra l’altro da “We Are the People” che è un… mezzo reggae! Aiuto! Comunque il reggae bianco (Police, Men At Work) se non altro m’acchiappa decisamente più di quello originario giamaicano (Marley, Tosh…).

Every Young Man’s Dream” continua a spingere i Nazareth di questi anni ottanta verso la musica “leggera”. Stavolta mi ricorda i Creedence Clearwater Revival, ma la voce di John Fogerty, l’insuperabile spinta del suo timbro più negroide di un nero, è ben altra cosa rispetto al volenteroso Dan McCafferty. Trattasi quasi di una filastrocca, senza ritornello.

Little Part of You” è ancor più il loro testamento anni ottanta; ritmica rigida e bloccata sul pedale basso/chitarra stoppata e… gentile, innocua, pop, tanto da ricordarmi i Cars, o i Pretenders. Molto accessibile, se non fosse per la voce sgraziata che toglie proprio ai Nazareth la chance di poter essere veramente qualcuno nel giro ottantiano del pop rock che conta. Al solito, chitarre col chorus come piovesse anche qui, piacevoli e datate… era la moda.

Spunta da tutto ciò, quasi alla fine dell’album, una “Cocaine”. Dal vivo, Proprio quella di J.J.Cale espropriata da Clapton ecc., ma in una resa semiacustica un po’ così, senza l’universalmente conosciuto riff di chitarra, sostituito da altre cose. Malgrado i camuffamenti, il pubblico in sala riconosce all’istante il refrain “She don’t like…” e risponde alla grande! La carica melodico/testuale di questo inflazionato rocchetto è, al solito, irresistibile. Il povero Cale senz’altro ci rosicava alquanto, però parallelamente ringraziando in cuor suo Clapton per averlo reso benestante, rubandogli la gloria ma non le royalties per questa canzone.

Victoria” chiude bene con un boogie animoso e animato da un geniale e inaspettato inserto Beach Boys (da “Good Vibrations”), carinissimo anche perché ben cantato in coro.

Vabbè, i rocchettari intransigenti possono solo stare al ripudio totale di questa uscita dei Nazareth, che è comunque più che decorosa per tutti gli altri. Certo, è figlia dei tempi.

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