Spenderò poche parole sull'esibizione di Devendra Banhart. Sarà che era ancora giorno, sarà che il tempo a disposizione è stato relativamente poco, sarà che il volume e la qualità dei suoni non erano elevatissimi (pecca gravissima quanto tipica del Lucca Summer Festival), lo show dell'ex enfant prodige dell'indie-folk del terzo millennio ha assunto i contorni dell'inconsistenza. Niente da recriminare, in particolar modo da parte mia che lo conoscevo solo di nome, ma se mi fossi trovato in una spiaggia caraibica invece che in Piazza Napoleone a Lucca, avrei sicuramente gradito di più. Il folk del Nostro si fa corale, i ritmi e le atmosfere guardano troppo spesso verso l'America Latina. Che il “giovine squatter” scoperto niente popo' di meno che da Michael Gira, il ragazzo tutto nevrosi e voce stridula che registrò il suo folgorante esordio con la segreteria telefonica, quel ragazzo pure belloccio e disinvolto sul palco con le movenze di un professionista della musica, che costui, Devendra Banhart, nel tempo abbia disatteso le aspettative nutrite nei suoi confronti (il miope Blow Up inserì il suo oramai celeberrimo “Oh Me Oh My...” fra i seicento dischi rock da avere, spartendo gli anni duemila con il solo Xiu Xiu) mi sembra oramai un dato di fatto, anche perché nel mondo indie (il più sensibile all'hype del momento) non se ne parla già più. Gli esperti mi dicono che sono presenti in scaletta diversi brani fra i più belli scritti dal cantautore statunitense, quindi chi lo conosceva sicuramente non è rimasto deluso. Un guest di lusso, infine, il Devendra Banhart, una comparsata onesta la sua, ma in tutta onestà mi pare che il suo set venga vissuto dai presenti con la medesima attenzione che presterebbero ad un piacevole sottofondo durante un aperitivo: i cuori e gli sguardi sono rivolti agli orologi, in attesa delle dieci, orario in cui farà ingresso sul medesimo palco la STORIA DELLA MUSICA.
Neil Young: il cantautore, il rocker. Il precursore, l'anti-eroe per eccellenza, the Loner. E scusate la retorica, la sua apparizione è un'epifania che accende i cuori e manda l'entusiasmo alle stelle. Di nero vestito, cappello da cowboy, fisico imbolsito, rughe che solcano il suo viso, movimenti sgraziati, chitarra elettrica, capelli al vento, un ventilatore sparato in faccia per aggiungere leggenda alla Leggenda. Non c'è più spazio per le stronzate, per gli ammiccamenti, per le soffuse atmosfere caraibiche, qua si fa sul serio, e si capisce fin dall'inizio: i “vecchi” dominano incontrastati sui “giovani”. Con l'attacco di “Love and Only Love” ho i lucciconi agli occhi, complice l'elettricità delle due chitarre, complice quell'icona vivente del rock che si agita sul palco a pochi metri da me. Gli storici Crazy Horse non sono il massimo dell'impatto scenico: Frank Sampedro è un buzzurro in canotta bianca (raffigurante il volto di Jimi Hendrix), Billy Talbot è una cariatide dal capello bianco che se incontrassimo su un marciapiede gli chiederemmo se ha bisogno di attraversare la strada; Ralph Molina accompagna gli altri con il suo drumming pacato ma costante che è prerogativa per valorizzare il chitarrismo torrenziale di Neil Young. Che in realtà si fa carico dell'intero concerto, in modo eroico, epico, titanico, con una performance vocale a dir poco perfetta (la voce, quella, pare miracolosamente inalterata nei decenni), ma soprattutto con una verve solistica alle sei corde che lo riconferma un guitar-hero di razza.
Fra i big visti dal vivo (così, al volo, mi vengono in mente un Lou Reed seduto e svogliato in versione nonnetta che rammenda i pantaloni, o un Roger Waters che allestiva grandi show, ma che infine non faceva un cazzo, se non sbraitare ogni tanto con quella faccia da invasato che si ritrova), Neil Young, con la sua energia, con la sua malinconia, con il suo coraggio, con il suo cuore, con la sua capacità di generare emozioni, è sicuramente quello che più mi ha folgorato, nonostante non mi possa ritenere un suo fan accanito.
Ovviamente l'ultimo ottimo doppio album “Psychedelic Pill” è fra i suoi lavori quello che guadagna maggiori spazi nel set di stasera, e l'assenza di molti classici (che comunque non ci saremmo aspettati, oramai sono troppi, non starebbero nemmeno in due giornate di concerto) non è cosa che ci preoccupa un granché. La stessa esibizione di stasera assume le sembianze del suo ultimo capolavoro, quelle della jam infinita, elettrica, chilometrica, un fiume di emozioni che amalgamerà in modo omogeneo un percorso che parte dal '67 per arrivare indefesso ai giorni nostri. La stessa opener di stasera “Love and Only Love” si "piega", senza nemmeno troppo accorgimenti, ai dettami, allo spirito dell'ultimo lavoro (o viceversa?, probabilmemte è così!), e con essa se ne va via il primo quarto d'ora, fra il fragore sconquassante delle chitarre elettriche ed assoli acidi, un tour de force che si pone a metà strada fra il rock-blues più viscerale e la suite psichedelica. Manco il tempo di respirare ed ecco che parte un altro classicissimo, “Powderfinger”, che ovviamente non ha bisogno di presentazioni, ma che certo si merita le migliori lodi che possiamo immaginare. E' il Neal elettrico stasera a prevalere, presto faranno il loro ingresso i brani di “Psichedelic Pill”, e infatti seguono la titletrack e la titanica “Walk Like a Giant”, che può a ragione presenziare accanto ai classici senza imbarazzo alcuno (o viceversa? difficile dirlo). Più di quarant'anni di storia del rock che convivono, incarnati in quel gigante della musica che stasera non sarà molto loquace, ma attirerà in modo quasi morboso gli sguardi e l'attenzione degli spettatori radunati in una affollatissima Piazza Napoleone.
Neil Young, il nonno del punk, il padre del noise, dell'indie-rock, del grunge. Stasera è semplicemente Neil Young, perché ogni paragone si scioglie come neve al sole. La scena che segue ha del surreale: Neil si avvicina all'amplificatore ed esagera con i volumi, gioca con i feedback, genera caos (vogliamo dire che Neil Young è anche il padre dei droni?). Vedere questo vecchietto dai movimenti impacciati, abbracciato al suo amplificatore, a schiaffeggiare la sua chitarra, alle prese con il noise è una cosa che mi fa sogghignare (del resto queste diavolerie l'ha inventate lui, no? si, magari con qualche idea presa in prestito dai Velvet Underground!). Si parla di altri dieci minuti di chitarre fritte e droni sparati nel cielo, ritmi rallentati, la jam si decompone e diviene un rito, un Inno al Rumore, la celebrazione di un vero mito della Storia del Rock.
Poi il buio, lo scroscio di un temporale, sugli schermi si proiettano fulmini e saette, Neil cambia chitarra ed indossa il proverbiale supporto per l'armonica a bocca: è solo, si apre il set acustico. Per molti sarà probabilmente il momento migliore, dato che sono molti i fan di Young che rimangono legati alle atmosfere di un album come “Harvest”. Ma anche per un tipo come me, che il country non lo può vedere nemmeno in cartolina, sono stati momenti di estrema suggestione e partecipazione. Sono le note di “Red Sun” ad aprire questa intimistica parentesi che ha il compito di racchiudere in un pugno di pezzi il Neil Young cantautore folk, ma è con “Heart of Gold” che la folla impazzisce e il ritornello viene cantato da tutti, rendendo l'evento vivo e palpitante, come se anche noi qui presenti, “giovani” del terzo millennio, venisse concesso di vivere almeno per un istante nella Storia della Musica. Segue “Human Highway” e, come se non bastasse, ecco che per magia si materializza a sorpresa una sentita riproposizione di “Blowin' in the Wind”, che costringe nuovamente il pubblico a cantare all'unisono con il canadese, che, lui grande fra i grandi, decide di tributare il suo grande mentore Dylan. I Crazy Horse rientrano sul palco, ma non è ancora tempo di elettricità: Young si accomoda dietro al piano e regala al pubblico inginocchiato dalle emozioni una struggente versione di “Singer Without a Song”. Ogni commento ulteriore è inutile.
Scrosci di applausi, il pubblico è oramai in visibilio, ma è il momento di ripartire, e si riparte alla grandissima con quello che per il sottoscritto sarà l'apice della serata: la riproposizione per intero di “Ramada Inn”, altro mastodontico contributo da “Psychedelic Pill”, altri quindici minuti e passa di rock rovente ed assoli da manuale che si susseguono alle strofe senza soluzione di continuità, in un fiume di emozioni che è difficile descrivere a parole. E' l'epicità del rock da palco che si unisce all'intimo lirismo di uno che, forse più degli altri, ha saputo sposare queste anime distanti ed opposte che da sempre popolano l'universo Rock. Con un'omogeneità e fluidità e disinvoltura tali che convivono senza fare a cazzotti brani che cavalcano interi decenni della storia del rock.
Il motore è caldo e si ha l'impressione che il concerto debba iniziare solo adesso: è il turno di grandi classici come “Cimmanon Girl” (breve quanto intensa) e “Fuckin' Up (devastante nella sua imponenza elettrica). Ormai Piazza Napoleone è divenuta una festante arena rock, Neil Young non lo ferma più nessuno e i suoi tre degni compari gli stanno dietro alla grande. Graditissima la riproposizione di un brano che raramente scoviamo nelle scalette di Young e che a mio parere risulta essere un altro picco della serata: l'epica “Surfer Joe and Moe the Sleeze” (da un disco minore come “Re-ac-tor”), rock allo stato puro con tanto di coretti da parte dei Cavalli Pazzi e una performance vocale che strizza l'occhio in più di una circostanza al Dylan di “Hurricane” (accostamento che non ci dispiace affatto). Il set si chiude con una terremotante “Mr Soul”, pescata direttamente dalla preistoria di Neil Young ed in particolare dal repertorio dei Buffalo Springfield. Ma a questo punto si parla il linguaggio del proto-rock battente all'ennesima potenza (il pezzo è del '67 e ha un riff portante che ricorda non poco quello di “Satisfation”), le orecchie sono oramai da buttare nel cesso, ma l'esaltazione è tanta nonostante il dolore.
Dopo il finale apocalittico i nostri lasciano il palco, ma come da copione c'è ancora lo spazio per due bis: le immancabili “Roll Another Number (for the Road”) e “Everybody Knows This is Nowhere”, due pezzi da novanta (intervallati da un lungo discorso a sfondo utopistico – anche questo è Neil Young) che paradossalmente scorrono senza clamore, tante sono state le emozioni che le hanno precedute (quasi due ore e mezzo la durata complessiva dell'esibizione).
Mi ci sono voluti tre giorni per digerire l'evento; lì per lì ancora non ero stato in grado di afferrarne la portata, l'enormità, continuavano a cozzare dentro la mia testa le tante e contrastanti incarnazioni del Young artista (il rocker, il cantautore, il folk singer, il pre-punk, pre-indie, pre-noise, pre-grunge ecc.), non accorgendomi forse, lì per lì, che tutti questi volti erano presenti sul palco, a pochi metri da me ed incarnati in una sola volta in quella sgraziata figura di quell'ometto che, francamente parlando, fa ancora il culo a tanti giovani.
Francamente, non me lo sarei mai aspettato.
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