Ballano e lei, ma cosa cazzo ci fai quassù mi chiedo ancora oggi mentre riosservo la scena nella testa, è l’incarnazione della felicità; il peso di un corpo che si materializza in un pugno di piume sollevate dal vento. Girano abbracciati, appiccicati: cercano in ogni istante il contatto con le mani, le gambe, le labbra. Ci sono un migliaio di persone ma per loro l’ambiente esterno non esiste o al massimo ha l’acquosa consistenza di un sogno che nessuno osa increspare ficcandoci dentro un dito. Non trovo meglio da fare che girare le spalle per non osservarla sorridere maliziosa; inciampo sulle facili note di una sequenza infinita di hit anni ’80 muovendomi come Robocop dopo una sbronza. Non avessi avuto il gesso sarei scappato facendo stridere i copertoni ed invece sono condannato a gettare occhiate ad intermittenza e tornare indietro a quando buttai via una bella storia per… Cambia forse qualcosa saperlo? Ogni sguardo alla sua felicità, che palesa quanto sia lontana la mia, come una pugnalata profonda: dopo un’ora la neve aveva il colore di un corposo vino rosso da rifugio.

Tornanti sulla via di casa mentre, appoggiando la nuca al vetro gelato, osserso la tardiva neve sugli alberi di questo stitico inverno che sta invecchiando. Fingendo un vago malessere come risposta agli stronzi ed inquisitori interrogativi altrui mi ritrovo a sputare nella mano dei sassolini. Li stringo in pugno, pieni di saliva e sangue, e capisco che sono queste rotonde pietruzze del cazzo che mi stanno ostruendo il passaggio dell’aria facendomi quasi soffocare pugnalandomi la gola. Ciononostante li rimetto in bocca e deglutisco con una smorfia il grigio, spigoloso e doloroso sapore del rimpianto.

Apro la porta di casa per chiuderla dopo nemmeno un minuto con in mano il mio vecchissimo lettore mp3: trovo lenitivo che sia un pugno di canzoni a dirmi quello che sto provando sotto forma di musica. Provengo da un background fatto di pochi buoni ristoranti e tanti cheeseburger e pizze surgelate. E’ assai probabile quindi che, come un bambino, tenda a giudicare piatti sublimi e pieni di sapori nuovi anche quelli che in realtà non lo sono. Scrivo un ultradoppione senza l’ambizione di voler aggiungere nulla rispetto a chi mi ha preceduto in quanto di Neil Young ho solo questo disco. Finora.

Sono alla mercè del freddo invernale mentre mi lascio cullare da “Only Love Can Break Your Heart”; ciondolo seguendo l’assonnato ritmo mentre osservo il fumo che esce dalla bocca, intenta a sussurrare stanche strofe ed il triste ritornello sospinto blandamente dalla chitarra: una sorta di calcio dato ad un barattolo che rotola per la strada. Spremo e mi disseto della triste voce che taglia il burro del piano in “After the Gold Rush”: è una melodia grigia, ipnotica e rassicurante che quasi mi fa perdere la cognizione dello spazio. Solo per un istante: giro a destra e mi ritrovo davanti alla fontana ghiacciata che pare quasi un emblema della serata trascorsa. Quell’acqua stantia condannata all’immobilità mi ricorda quel periodo, che credevo di avere seppellito per sempre, e che invece ora comprendo che mi rimarrà intrappolato in testa ancora per un bel po’. Il disco prosegue con la solare, allegra e ritmata “Till the Morning Comes” che stona con il mio stato, proprio come lo stronzo di cane che macchia il bianco marciapiede che si inerpica per la montagna. Osservo dei pezzi di neve sui rami, indecisi se cadere o no: sembra stiano ascoltando il giro di chitarra di “Tell Me Why” prima di prendere la loro decisione. Alla fine sarà un tuffo carpiato destinato a coprire parzialmente la scritta del volantino che ricorda la festa ormai passata. Mi faccio piacevolmente deprimere da quella che sembra una mia introspettiva fotografia sonora in “Oh, Lonesome Me” per poi trovare la via di casa mentre viene creata un’atmosfera sottile e fragile con il pizzicare del piano sul quale si attorcigliano linee vocali appena accennate in calibrati mini-crescendo che mi ricordano il ghiaccio sottile sul quale non ti fideresti mai di poggiare il peso (“Birds“). Non è ghiaccio, ma pavimento quello che cerco di calpestare con il massimo garbo: sono le 3 passate e la ballata di “I Believe in You” con i suoi intrecci vocali mi rimbomba in testa mentre mi svesto; mi distendo infine sul letto per ascoltare la mia preferita "Southern Man".

Pronto per chiudere gli occhi tolgo le cuffiette e l’ansimare dei miei vicini del piano di sopra fa irrimediabilmente riaffiorare quei sassolini che “After the Gold Rush” mi aveva quasi fatto dimenticare. Che disco!

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