Un disco epocale, imprescindibile per ogni appassionato di musica rock che non avesse già in scaffale la dozzina e più di album da cui sono tratte queste canzoni. Folk-rock; country-rock e rock psichedelico e cantautorale: di tutti questi sotto generi musicali della cultura giovanile tra gli anni sessanta e settanta del ‘900, Neil Young è stato in qualche modo non dico l’ispiratore ma certamente una delle voci più influenti. E i 35 pezzi di questa antologia costituiscono una specie di “summa autentica” del periodo 1966-1976 nel senso di essere stata supervisionata e descritta dall’autore stesso, brano per brano, con una caparbietà assolutamente inusuale per un’epoca in cui le raccolte di “greatest hits” di un artista venivano quasi sempre compilate unilateralmente dalla casa discografica.

Un album triplo e un excursus interessantissimo (e quasi completo: direi che manchi solo qualcosa da «Four Way Street» e da «Time Fades Away»), che parte dagli esordi con i Buffalo Springfield, alla favolosa collaborazione del periodo CSN&Y e poi ai lavori solisti, da quelli epici di «Harvest» a quelli intimisti della “trilogia oscura”, ciascuno con le sue perle. Merito di Young di proporci una scelta non solo “prospettica” (da lì sono partito e qui sono arrivato) ma anche sostanzialmente “unitaria” per cui tutto questo materiale diventa un grande affresco sonoro, senza clamorose soluzioni di continuità: come se fosse un disco a sé e non un’antologia “di successi”. Anzi, nella versione in digitale su due dischi – dovendo trafficare meno passando da una facciata all’altra del LP – si apprezza anche meglio questo flusso di note che dura oltre due ore, in pratica un vero concerto.

La vastità della scaletta mi assolve da una valutazione dettagliata e anche solo di richiamare ogni album; posso dire invece che la praticità operativa del digitale mi ha permesso di concentrare l’attenzione su alcuni pezzi che all’epoca avevo trascurato per “troppa abbondanza”, come le precedentemente inedite «Winterlong» e «Deep Forbidden Lake», mentre - rispetto al mio vecchio long-playing - la pulizia del suono ha enfatizzato la bellezza da brivido di due capolavori quali «Like a Hurricane» e «Cortez the Killer».

Ovviamente il formato-album consente invece di apprezzare al meglio la parte grafica, che è assai ricca e interessante, non solo per le note autografe del nostro su ogni pezzo, a partire dalla iconica ed enigmatica foto sul fronte di copertina (autore Tom Wilkes, lo stesso di «Harvest») che però non è del buon Neil, ma di una ragazza – basta guardare i capelli, ondulati invece che lisci - appoggiata di spalle alla custodia della chitarra, le braccia distese a lato e lo sguardo verso il deserto. Ce ne sono diverse anche di sue, di foto: da ricordare quella in primo piano sul retro e l’altra all’interno, lui seduto e bianco-vestito dietro la sei-corde; in entrambe con quel suo sguardo corrucciato e quasi timido, dal basso in alto, come di chi malvolentieri si presta ad “apparire”. La mia preferita è però un’altra, quella scanzonata e allegra, e così per lui inconsueta, dove sorride con una birra in mano.

Insomma, non c’è rischio di sbagliare con questo album: un buon viatico per chi delle nuove generazioni volesse avvicinarsi al Neil Young del periodo “classico”; un eccellente “ripasso” ricco di emozioni e tutto da gustare per quelli che l’hanno sempre amato.

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