Ritratto dell’artista da adulto, parte prima.

Parafrasando Joyce, tale potrebbe essere la definizione più idonea a definire “Harvest moon”. Banalmente definito successore – vent’anni esatti dopo – di quel “Harvest” che scolpì il nome di Neil Young nella storia della musica, tale disco è in realtà opera ben più complessa.
La prima parte, appunto, di un progetto teso ad affrontare i miti che hanno costellato la carriera del Canadese, e la cui conclusione sarà trovata nel successivo, doloroso “Sleeps with angels”. In tal senso “ Harvest moon” rappresenta il lato solare di tale ricerca. Young vi ci arriva nel 1992 abbassando i toni, riproponendo steel guitar, armoniche struggenti e sensuali controcanti femminili, dopo che con “Ragged glory” e “Weld” aveva chiuso un altro cerchio, quello della ricerca sonora del suono chitarristico perfetto, cacofonico e distorto, posto a sigillo del ritorno del rock più autentico al centro della musica contemporanea nella stagione grunge.

Il ritorno alle sonorità di “Harvest” è certificato anche dalla rimpatriata con musicisti che collaborarono a quel disco, come James Taylor, Nicolette Larsson o Linda Ronstadt e non è casuale, anzi. Un altro conto col passato da chiudere. Young ha sempre avuto un rapporto di amore/odio col suo disco più celebre, dai cui cliché temeva di rimanere intrappolato e che ripudiò all’epoca di “Tonight’s the night”, arrivando persino a parodiarne gli stilemi. Anche dal vivo rare sono le riproposizioni dei soavi classici country-rock, a parte ovviamente quella “The needle and the damage done” che il suo autore ha sempre considerato tra le sue composizioni più personali.

Quali sono i miti che Neil sciorina in questo “viaggio attraverso il passato”? Il mito di “Harvest”, certamente. “Old man” citata in una bucolica “You and me” da brividi, la stesura di melodie celestiali e sognanti in ballate folk da urlo come “From Hank to hendrix”, “Dreamin’ man” e “Unknown legend” o in una “Such a woman” che sembra un’ideale prosecuzione di “A man needs a maid”. La leggenda di “Harvest” come sigillo di una stagione in cui le migliori menti della musica collaboravano tra loro, mettendo in musica il sogno di un mondo migliore, prima che gli anni 70, con il loro carico di droga e opprimente disperazione spezzassero quei magici fili.
In tal senso è splendida la dedica a quei giorni in “One of these days”, con Neil che declama commosso "I never tried to burn any bridges / though I know I let some good thing go”, chiaro messaggio ai vecchi amici Crosby e Stills, quegli stessi che un tempo erano “persi in un canyon di cristallo”, come recitato a suo tempo in “Thrasher”. L’apice del pathos è pero raggiunto nella chiusura, coi 10 minuti eterei di “Natural Beauty”. Erede di chiose epocali ai dischi younghiani quali “Ambulance blues” o “My My, Hey Hey( into the black)”, non sfigura nel confronto con quei capolavori. Un brivido corre lungo la schiena all’ascolto di uno Young sereno come non mai, lui che ha scritto le pagine più oscure nell’intera storia del rock. “Natural Beauty” è il suo acme della maturità, una ballata divina, in cui le voci femminili conferiscono un tocco magico irripetibile.

Un viaggio disincantato e poetico tra le disillusioni della vita (We watched the moment of defeat / Played back over on the video screen/ Somewhere deep inside /Of my soul) oppure (One more night to go One more sleep/ upon your burning banks A greedy man never knowsWhat he's done) e il perenne monito a combattere la ruggine (Don't start yourself too short, my love / Or someday you might find / your soul endangered A natural beauty should be preserved /like a monument to nature).

Poeta dell’Ontario, in viaggio tra noi.

Carico i commenti...  con calma