I gruppi che riescono ad inanellare una serie di dischi di alta qualità sono una merce rara, indipendentemente dal genere musicale, che si voglia spaziare dal rock classico alla più brutale versione del metal. I Nevermore penso rientrino appieno in questa setta per pochi adepti: dal loro esordio nell'ormai lontano 1995 partendo dalle ceneri dei Sanctuary, la band di Seattle si è mantenuta su livelli sempre elevati dando alle stampe capolavori assoluti come "The Politics Of Ecstasy" e "Dreaming Neon Black". Credo che il pregio maggiore dei Nevermore sia quello di aggiungere al concetto di metal estremo, molto spesso ricco di dettami che sfiorano il valore di dogma (guai a violarli!), un gusto particolare: se in "TPOE" era la violenza esecutiva accompagnata da altrettanta violenza a livello di invettive sociali sul piano dei testi, e in "Dreaming.." la ricerca introspettiva che sconfinava nella filosofia e nella religione, in "Dead Heart In A Dead World" a colpire è la spinta rinnovatrice, volta a dare una vesta più moderna e attuale al concetto di thrash metal.

 Il disco inizia potente e deciso con "Narcosynthesis" e subito si comprende cosa intendevo x spinta innovatrice: la produzione risulta più pulita che in passato e il suono più compatto, quasi a voler strizzare l'occhio (ma senza andare oltre) al fenomeno nu-metal che imperversava nell'anno 2000 negli States; per il resto si rimane ben ancorati alla tradizione, riff e assoli sono semplicemente da manuale.  Un'altra traccia che segue questa via è la stupenda "The River Dragon Has Come": inizio dolce e sognante interrotto bruscamente da un turbinio che si scaglia feroce contro la stupidità che secondo il nero giullare Warrel Dane regna sovrana al giorno d'oggi.

 Più simili al sound classico dei Nevermore si presentano "Inside Four Walls" e "Engines Of Hate": la prima è un'aspra critica al sistema americano e alla coercizione a cui questo sottopone l'individuo, la seconda colpisce per la parte centrale caratterizzata da assoli vertiginosi e riff tellurici.

 L'album presenta poi tre ballad (o simil-ballad trattandosi pur sempre di Nevermore) "Evolution 169", "The Heart Collector" (forse un po' troppo ruffiana) e "Insignificant": tutte di livello eccelso anche se personalmente preferisco la prima con il suo cambio di tempo centrale e il suo finale sfumato...

 La chicca è sicuramente la cover di Simon & Garfunkel "The Sound Of Silence": da soffice ballata a canzone devastante e spaccaossa, il tutto senza forzature: anche da questo si vede il valore di un gruppo (tra l'altro nella versione limitata del disco c'è un'altra cover "Love Bites" dei Judas Priest, perfetta anche questa).

 A chiusura troviamo la title-track, cinque minuti che ben descrivono il mondo Nevermore: oscuro pessimismo, malinconia, rabbia, frustrazione che si tramutano in un vortice di voce, chitarre, basso e batteria; ordine e chaos che camminano assieme mano nella mano.

 

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