Sotto il cappellino niente?
Non so a che cosa intendesse riferirsi Winston Churchill quando disse: "Possiede molte delle virtù che detesto e nessuno dei vizi che adoro", ma certo questo aforisma sintetizza meglio di qualsiasi altro ciò che penso del rap e dell'hip hop prodotto negli ultimi quindici anni, fatte salve alcune eccezioni, rari uccelli che si contano sulle dita di due mani, avanzandone pure. L'era del rap fattosi "sistema", ripetitivo, decotto e biodegradabile, in una parola: innocuo. E grazie tante, MTV. (Peccato. Da poco più di un lustro ero stato folgorato sulla via di Harlem e di Compton da una musica per me inaudita, i Last Poets scorsi fino allora solo sui libri e perciò indispensabile Cicerone nel viaggio a ritroso alla scoperta delle meraviglie della black tutta. Insomma, una rivoluzione, come non ne sentivo dai tempi del punk, fosse quella dura, pura e militante di Boogie Down Production, Public Enemy e Paris, quella che trasferiva il ghetto dal set di Colors dentro i solchi di Erik B. & Rakim, N.W.A e Gang Starr oppure quella variopinta e freakadelica di De La Soul, A Tribe Called Quest e Jungle Brothers. Condivisioni, due più una: busta rhymin' serrato, breaks ritmici assassini che "rubavano" dai Grandi Padri qua e là ma soprattutto quell'ineffabile quid che, spesso abusandone ma non in questo caso, si chiama "creatività").
Uno dei motivi per cui avanzano dita al conteggio di cui sopra potrebbe magari risiedere nel fatto che due fricchettoni neri broccolinesi, Nosaj e Dj Sebastian, associatisi in arte come New Kingdom, abbiano inspiegabilmente smesso di fare dischi dal 1996, l'anno in cui uscì il loro paradiso non per tutte le tasche. Nessuno meglio di queste controfigure fuoriuscite da "Shaft" vent'anni dopo ha saputo descrivere il loro lavoro: "Outer space hip hop", chiosava puntutamente e con non comune acribìa critica il maestro di cerimonie Nosaj, che per rendere meglio (?) l'idea aggiungeva: "Suoniamo come i Run DMC che fanno un frontale con i Black Sabbath, mentre stanno andando a trovare gli AC/DC, e nello scontro coinvolgono il rimorchio di Curtis Mayfield, in pieno territorio Cypress Hill". Tutto vero, cioè falso. Nel senso che, se va bene, siamo a metà strada. Perciò, gli faceva eco da dietro i piatti il compare Sebastian dalla chioma leonina, metà rastafariano e metà Doctor J: "Siamo come una carovana di autotreni, mano a mano che il convoglio procede raccoglie per strada tutti quelli che vogliono esserci, diventando sempre più imponente fino a quando si fa inarrestabile". Un nome solo tra quelli raccolti per strada, magari di quelli non proprio abituali tra i riferimenti di una posse? Ce l'ho, Captain Beefheart. Mi prendete per pazzo?
Provateci voi allora a classificare questi cinquanta minuti scarsi di magma sonoro scuro come solo la materia proveniente dal centro della Terra può esserlo. A incatramare il tutto, una colata di pece incandescente che rende l'incontro tra sottogeneri "neri" e "bianchi" di Run DMC e Aerosmith reperto preistorico oltreché unidimensionale. E che razza di tutto! Funky psicotico e colloso virato a 16 giri (Horse latitudes, Big 10 half) oppure a...22 e ½ (Paradise don't come cheap e Co-Pilot, roba così ai Public Enemy non è mica più riuscita), hard-rock in moviola che fa tremare casse e muri (Kickin' like Bruce Lee e Suspended in air, i Sabbath ad Harlem), oscurissimi e rallentati spettri para-grind (Valhalla Soothsayer, Terror Mad Visionary) trip-hop imbevuto nell'acido (Animal, l'incontro fra Tricky e i Funkadelic più off, quelli di Maggott Brain), persino inaudite aperture di magniloquenza progressive (Unicorn were horses, clamorosa nel suo rimandare ad un impossibile outtake di The lamb lies down on Broadway). Insomma, un viaggio più "allucinato" che allucinante, che dal Messico della prima traccia (Mexico or bust, Barry White in tenuta da hippie, in vacanza nel deserto coi Cypress Hill) vorrebbe arrivare fino al Sole dell'ultima (Journey to the sun, un sole che ha invero le caratteristiche del buco nero...), passando però per l'inferno (Shining armor), una Commedia assai poco divina che procedendo per quei gironi danteschi si imbatte nelle anime prave citate sopra e in molte altre insospettabili, tutte strafatte e sottoposte ai "trattamenti" creativi e all'ironia spiazzante del duo, che in certi momenti sa andare oltre creando bozzetti di geniale e "zappiana" presa per il culo.
Chi sarà mai, ad esempio, l'Animal che Nosaj dichiara come il suo batterista preferito, in un brano che al suo interno cita in sequenza Cobain, Hendrix e Miles Davis? Un amico morto di droga? Una vittima delle lotte tra gang rivali? Ma no, è al batterista del Muppet Show che è dedicata. Stupidi noi a non averci pensato prima. E quand'anche debbano rendere omaggio a qualche Padre Nobile della musica nera, i due lo fanno alla loro maniera, vedasi il James Brown reverenziato all'inizio di Half Asleep con un impagabile: "Say it loud, I'm freak and I'm proud!". Tanta, tanta roba. Purtroppo, senza più un seguito.
Appurato pertanto che il paradiso non verrà via a poco prezzo, non sarà il caso di dolersi troppo. All'inferno, spendendo molto meno, di sicuro mi divertirò assai di più. Scalciando come Bruce Lee
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