New Order (Bernard Sumner, chitarra e voce; Peter Hook, basso; Steve Morris batteria; Gillian Gilbert, tastiere), 1985. Dopo il successo internazionale di “Blue Monday” (l’hit che cambiò radicalmente la carriera di una band che, sorta dalle ceneri della tragica fine dei Joy Division, fino ad allora aveva dimostrato di essere ancora troppo legata al sound e alle tematiche del proprio glorioso passato), sembrò che una parte dei fans della prima ora si fosse sentita “tradita” da una svolta verso territori sonori piuttosto distanti dalle aspettative riposte verso dei musicisti che alla fine degli anni ’70 avevano firmato in compagnia del loro leader Ian Curtis degli autentici capolavori del rock.

In realtà il boom di quel singolo ebbe il merito principale di rendere davvero attuabile il “patto” che i quattro Joy Division fecero all’apice della loro fama: “se uno di noi dovesse morire, la band cambierà nome e stile, ma non si scioglierà”, e i frutti di questo lavoro di “ri-appropriazione” di una identità artistica lasciata a sé stessa fino a “Power, Corruption & Lies” (1983) si possono godere maggiormente in questo "Low Life", a mio parere il miglior disco dei New Order e uno dei più significativi dell’intera scena musicale britannica degli anni ’80.

Fondamentalmente, l’angoscia esistenziale e le tematiche introspettive di Ian Curtis non vengono abbandonate dalla band, ma semplicemente riproposte in una veste assolutamente originale e apparentemente stridente, quella di un technopop minimale e perversamente melodico, con una attenzione particolare nel combinare suoni cinici ed eleganti con il cantato di Bernard Sumner che in questa occasione rende virtuosi i suoi limiti canori, aggiungendo con la sua voce fredda e apatica un tocco metropolitano che finisce paradossalmente per emozionare.

E’ il caso dell’iniziale “Love Vigilantes”, una traballante melodia arrangiata con dei chiari riferimenti ai Cure di quegli anni, e nella quale pare che Sumner voglia in un certo senso ricalcare la memorabile performance da crooner del Curtis di “Love Will Tear Us Apart”. La nevrotica “The Perfect Kiss” fu l’hit che trainò il disco verso i vertici delle classifiche, e si può considerare come l’apice formale della fase “dark disco” dei New Order, quella che porterà poi al pop sofisticato di “True Faith” qualche anno dopo; con “This Time Of Night” si entra in atmosfere decisamente più cupe e angoscianti, con un Sumner ancora protagonista di una prestazione sofferentemene monotona sopra un tappeto di glaciali tastiere; l’elettrica “Sunrise” invece presenta uno dei riff più classici e rappresentativi dell repertorio New Order impreziosito da un accelerazione frenetica che fa di questo pezzo uno dei più memorabili di “Low Life” e forse quello che paga il maggiore tributo all’ epopea dei Joy Division.

Il lato b si apre con lo strumentale horror di “Elegia” che trasporta il mood dell’ album da un contesto metropolitano a un viaggio irreale negli incubi più profondi (si dice che all’ epoca la band facesse largo uso di droghe). La tensione viene però spezzata dalle rassicuranti tastiere di “Sooner Than You Think”, probabilmente il brano più “leggero” del disco e che nella sua ostentata trascuratezza risulta il più orecchiabile, ma è solo un prologo di quella che a mio avviso è uno dei massimi capolavori del gruppo, “Sub-Culture” che, con il suo incedere epico, fatalistico e la contaminazione tra le drammatiche note suonate da Gilbert (il vero “motore”, a mio avviso, del sound dei New Order) e le ritmiche newyorkesi ossessive sicuramente “suggerite” dalla produzione di Arthur Baker. Il testo della canzone, perfettamente incastrato in una sorta di filastrocca paranoica dall’interpretazione svogliata e “soffocata” di Sumner, nasconde nella sua semplicità una visione terribile e disillusa, non priva però di un lontano scorcio di speranza, nei confronti della solitudine universale dell’uomo moderno e della difficoltà delle relazioni umane (va sottolineato che si era nel pieno degli anni ’80 di Reagan e della Tatcher):

“What do I get out of this?
I always try, I always miss
One of these days you’ll go back to your home
You won’t even notice that you are alone
One of these days when you sit by yourself
You’ll realise you can’t be shaft without someone else
In the end you will submit
It’s got to hurt a little bit”

Difficile sintetizzare meglio di queste parole il malessere sociale di una intera generazione. “Face Up” chiude il disco in un tripudio nonsense di percussioni, dissonanze, stravaganze melodiche e suggestioni robotiche, quasi come se ci trovassimo di fronte a un ipotetico coro di un’osteria del futuro. In conclusione, “Low Life” si tratta di un album di eccezionale livello, che a distanza di 20 anni suona ancora attualissimo sia nelle tematiche che nelle sonorità (molto più, paradossalmente, di “Waiting For The Siren’s Call”) e che consiglio assolutamente come miglior punto di partenza per approfondire la conoscenza di un gruppo che è riuscito nella non facile impresa di uscire da una “leggenda” per costruirne un’altra.

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