Si dice che al tempo dei Birthday Party, avesse scritto in metropolitana una lettera alla ragazza, usando come penna una siringa e come inchiostro il proprio sangue. E sulla copertina di quest’album, Cave sembra un vampiro. Pallido, emaciato, un’ideale controfigura per Klaus Kinski.
Lontanissimo dal cantautore romantico di “Foi na cruz”, o da quello addirittura melenso di “Into my arms” Nick Cave ha infatti addolcito nel tempo i toni della sua opera, avvicinandosi progressivamente ad una concezione cantautorale più tradizionale. Ma sul primo album con i Bad Seeds è più che mai la voce dell’ossessione, senza quel clima quasi goliardico che rendeva i dischi dei Birthday Party una provocazione, per quanto estrema.
Qui aleggia un clima più serio e maturo, gli arrangiamenti cupi ed espressionisti sono calibrati per creare una cruda atmosfera da thriller, tra momenti di suspence ed esplosioni violentissime: - Voglio parlarvi di una ragazza - annuncia il cantante nella title track, uno dei momenti più alti di tutto il repertorio dell’australiano, che in un crescendo apocalittico imbastisce al piano una storia angosciata come certi racconti di Edgar Allan Poe, in una tensione da cardiopalma tra rumori industriali sempre più stordenti: così quando urla “Tell me why” con furia inumana sembra di guardare dritto negli occhi un serial killer un attimo prima di essere uccisi. L'amore come pulsante desiderio, come torbida ossessione.
È un disco nerissimo, allucinato, che riesce a sposare il gotico al blues più malato e strisciante, come nella lunga e lugubre ballata notturna “Box for black Paul” per piano e slide o nell’altrettanto macabra “Saint Huck”, nelle quali Cave emerge per le sue eccezionali doti di interprete, degno del più invasato Carmelo Bene. Le sue capacità attoriali sono ancora in evidenza quando trasforma una tenue ballata come “Avalanche” di Leonard Cohen in un esercizio subdolo e velenoso di recitazione, o nel delirio parossistico di “Cabin Fever”, novello capitano Achab alla deriva sull’oceano della follia, o ancora nel blues delle galere “Well of misery”, che procede seguendo lentamente un’armonica sbilenca a ritmo di frustate.
Su tutti i brani il canto è debordante, di ferocia e intensità psicotiche. Si respira dall’inizio alla fine un’atmosfera estremamente degradata e malsana, ottenuta senza ricorrere neppure una volta alla distorsione delle chitarre.
Ma la letterarietà dei testi e l’elegante e paradossale austerità dell’accompagnamento dei Bad Seeds, tradiscono in parte l’assunto: i temi del disco sembrano essere la violenza e la paranoia, visti però in una prospettiva forse troppo colta ed estetizzante rispetto ad esempio alle prime terrificanti opere degli Swans di Michael Gira, personaggio per molti versi simile a Cave. Nonostante questo, quello che rimane è comunque uno dei principali ed originali dischi di blues degli ultimi decenni, e l’inquietante biglietto da visita di uno dei più importanti cantautori moderni.
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