Passi una vita a cercare quel qualcosa che ti lasci il vuoto dentro. E c'è un momento in cui queste cosa si palesa davanti a te e nemmeno ti aspettavi di trovarla. A volte è una persona che fa tabula rasa dei tuoi sentimenti, a volte un disco. Non è detto che le cose non debbano coincidere. Come allineamenti cosmici al funerale del tuo migliore amico.

Ho provato ad aprire la bara laccata in bianco e ci ho visto qualcosa: la luce soffusa di una stanza e ad al centro un uomo ben vestito di nero, allampanato, smagrito dagli anni, e quell'uomo mi mostrava una finestra. E allora ho deciso di affacciarmici e così ho visto una storia attraverso lo sguardo di un eroinomane che guarda oltre i vetri sporchi e rivede sè stesso. Si vede vivere. E si mette a raccontare ciò che vede attorno alla sua figura. Non parla di sè, descrive tutto il resto, ciò a cui passa accanto, accanto a quell'individuo sfinito. Solo ossa e troppa vita a ricoprirle.

È così che Nick Cave si presenta oggi: nudo, assetato di parole, senza essere uno spettro ma senza respirare, senza aver perso tutta quella vita che ricopre le ossa ma sfiancato dalla narrazione. E così è la sua musica, sua e di nessun altro. Una musica che viene dalla polvere delle ossa di una miriade di creature impazzite- E lui, scheletro tra i fantasmi, si erge e sparge ancora una volta i suoi semi cattivi su un campo coperto di brina. Alcuni di essi irrimediabilmente perduti da tempo, caduti in altri campi e germogliati in frutti magnifici (Blixa Bargeld, Hugo Race), altri tremendamente vicini eppure così orrendamente lontani (Mick Harvey), altri invece fermi nel suo pugno pronti ad essere seminati ancora una volta (Warren Ellis). Nick Cave è l'unico che può far fiorire epicità da un lavoro arido come il deserto, l'unico che può sedersi su uno sgabello logoro e parlare al cuore della gente senza sembrare una stupida parodia dylaniana di sè stesso. Rinascendo attraverso la foschia partorisce "Push The Sky Away". E divora la sua anima toccante con afflati di gelo elettrico su organetti che danzano su percussioni sintetiche assicurando che non c'è niente da perdonare ("We No Who U R"), si traveste da angelo nero e affila chitarre di ruggine, chiede alla polvere, attraversa un deserto infestato dai fantasmi del folk ("Wide Lovely Eyes"), è divorato dall'urgenza di vomitare parole su parole su parole, ammonisce "ye you grow old and you grow cold" con la sua ferocia in giacca e cravatta mentre il basso pesta le giunture ("Water's Edge"), e finalmente la trasformazione del flebile in epico attraverso voce e archi e arpeggi ammantati di nebbia ("Juilee Street") e infine si getta in un mare/male di droni funerei, spettri sintetizzati, e racconta ancora, non si ferma, solo per lasciare agli spiriti lo spazio di penetrare quelle ossa martoriate dall'esistenza.

Ed è così che Nick Cave ha spinto via il cielo

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