La voce arriva da incommensurabili distanze, racconta di una ragazza svagata e di un misterioso uomo del fiume.

Le parole sono un soffio a fior di labbra su una musica ipnotica e ondeggiante (effetto, dice chi se ne intende, di un inusuale ritmo in cinque quarti). Ecco “River man”, ovvero il blues da camera, “l'impasto di miele e tristezza per il biscotto secco dell'anima”, come dice il vampiro.

“River man” una chitarra gentile, una voce da bossanova del profondo, con l'ultima sillaba di ogni strofa protratta fino all'inverosimile. Con gli archi che arrivano come un bacio, come una carezza ad un bambino sconsolato e si fanno via, via tristi e cupi e anzichè accogliere ed abbracciare stan li, quasi fossero l'eco delle dissonanze interne.

La ragazza svagata che è la tua anima ha fede, ma tu no e non ti servirà quel che l'uomo del fiume potrà dirti sul divieto di sentirsi liberi ...”dicevo addio al mondo con delle specie di romanze” così qualcuno poetava un centinaio d'anni prima.

Ha ragione Paola De Angelis "River man”, nonostante l'andamento lirico e maestoso, è una mongolfiera che prova ad alzarsi e volare, ma poi ricade a terra. Un pochino lo stesso concetto (quello dello zio Robyn, ricordate?) delle farfalle legate ad un'ancora.

Che tu non sei l'uomo del fiume e non verrà il tempo dei lillà...e l'anima/ragazza svagata dica quello che vuole..

E su questo brano, la mia vocina interiore mi dice di fermarmi qui. E allora, sia pure in preda ad una certa frustrazione, mi fermo. Non sia mai detto che io non ascolti i buoni consigli.

"Three hours" è una canzone labirinto, con tante strade e stradine secondarie., come se gettando un sasso nell'acqua di un fiume si producessero cerchi all'infinito. Si sa, il virtuosismo è quasi sempre fastidioso, come una rana che dicendo io cerca l'applauso. Qui però non è fastidioso per niente.

E quella chitarra che va da tutte le parti, ti porta sul serio da tutte le parti, aiutata da un sorprendente punteggiare di congas, che crea un incredibile effetto espansivo, come se i cerchi dall'acqua si riflettessero nel cielo, nel verde dei prati, o dove vi pare.

E come entra la voce!!! Che la tenerezza e la malinconia si son cucite un vestito nuovo e quel soffio sembra più profondo che mai e le parole, le parole sono quelle del blues. Che "a est della città e giù nella caverna" si va "in cerca di un padrone"... "in cerca di uno schiavo"..."in cerca di una vita da raccontare quando si è a casa"..."e tutti volano via"..."e nessuno vuole essere visto solo". E alla fine piano piano tutto si spegne, le chitarre, le congas...poi, creando uno straordinario effetto spiazzante, che ammette perfino il vampiro, arrivano gli archi di "Way to blue", che "Three hours" è la traccia tre e "Way to blue la traccia quattro".

Quindi dopo il vagare urbano, una invocazione a cercare l'azzurro o il blu, come vi pare, per entrare nel mondo con un pochino più di coraggio rispetto alle ombre.

E con "Way to blue" siamo a un millimetro dal ridicolo, forse anche meno, siamo la dove si rischia di essere atrocemente sentimentali, ovvero nel cuore del cuore della mancanza, tra domande sussurrate con tono evocativo e risposte affidate alle zone più rassicuranti di quella voce di miele.

"Way to blue", non occorre dir altro per un drakiano, ma io ci ho messo roba per innamorarmi di questa canzone, che qui gli archi li odiavo proprio e quella voce l'avrei lasciata sola.

Quella voce che chiede grazia, che chiede conoscenza, che chiede che si possa essere in accordo (in rima) col tempo., come se noi e il mondo potessimo essere due rime della stessa poesia.

E comunque io ormai sono anziano e spreco il mio tempo sul tubo a caccia di meraviglie. Beh, ne ho trovata una, un vecchio signore che rifà "Way to blue", solo voce e chitarra, cambiando un pochino il tempo e la melodia e facendola diventare una canzoncina folk luccichina luccichina, riuscendo a dire di più dicendo di meno. Vi ho già parlato di quella scienza chiamata economia della sensazione, vero?

Ma ho fatto pace da tempo con “Way to blue”. Che adesso mi sembra quasi uno spiritual, che l'importante, come dice alla fine è non cadere quando si spegne la luce.

Si, ho fatto pace. Il vampiro no, lui ancora se la canta da solo.

C'è una grande classicità in "Day is done" e una assoluta tristezza "quando il giorno è passato, quando la notte è fredda, alcuni ce la fanno, altri diventano vecchi". Ho sempre amato questo brano, dall'arrangiamento spigliato e malinconico, con Nick che canta quasi di corsa.

L'ho amato tenendo sottotraccia una certa perplessità., che insomma qui Nick fa il canzonettista di classe, una roba quasi francese, non la mia tazza di the, quindi. E però. però, se ti fai prendere da quell'andare in fretta, se insomma ti fai invadere senza star troppo a pensare, la tazza di the passa in secondo piano, al punto che questa per un po' è stata la mia canzone del mattino, risveglio e "Five leaves left”...traccia cinque...con tasto repeat...

Queste quattro canzoni sono il cuore di “Five leaves left” e sono di una bellezza insostenibile.

Non che il resto valga poco, c'è magari solo qualche piccolo scricchiolio. Ma se non siete drakiani della corrente “Pink moon”, ovvero quelli che vorrebbero ascoltarlo sempre e soltanto voce e chtarra, non ve ne accorgerete.

Ma queste quattro canzoni hanno un pre e un post (prefazione e postfazione) nell'iniziale “Time has told me”, meravigliosa ballata punteggiata dall'elettrica di Richard Thompson, e nell'incredibilmente ariosa “Cello song”, un brano che porta dritto dritto tra le nuvole.

Oh, credetemi dalla uno alla sei, è un'esperienza mistica, con brani anche piuttosto diversi tra di loro uniti da una voce splendida e da una magia che non da tregua.

Ma veniamo agli scricchiolii.

“Mary Jane” è una figura femminile sognante, ma anche un perfetto autoritratto. Molti hanno scritto sull'uso dei doppi femminili nella sua scrittura. Prendendoci, probabilmente.

L'autoritratto è un po' troppo ideale, un po' troppo ingenuo, un po' troppo romantico. Ma a noi aiuta lo schermo dell'inglese, perché dobbiamo comunque sempre tradurre e, traducendo, le parole sono prese al laccio, un lungo laccio che arriva in un cielo distante.

Talmente distante che quella ingenuità arriva molto, molto attenuata. (è un bene, è un male?)

Certo, avvicinandosi, quelle parole perdono un po' della loro perfetta retorica e si fanno accarezzare come gatti. Ma se vogliamo godere della loro insinuante immediatezza dobbiamo dimenticarle e lasciarci andare alla melodia, insomma ascoltare, come ascolta il vampiro, con un orecchio notturno,

Non è facile, che senza le parole e solo con la melodia (e con quella voce di miele) per noi è tutto confuso, dolce, ma confuso...una specie di nebbia, qualcosa di chiaro e di bianco, di femminile e materno. Per il vampiro no, per il vampiro non c'è vaghezza e viene a comporsi una figura che ha la luminosità e il mistero dei tarocchi notturni.

E allora questa “Mary Jane”, "che vola e esce nella pioggia" "e viaggia verso le stelle"..."che ha anelli colorati e luminosi" "che viene da un mondo diverso" e che è "la principessa del cielo" (ve l'avevo detto che siam davvero nell'ingenuità più disarmante)...e allora questa “Mary Jane” lui, il vampiro, la vede davvero, esattamente come voi vedete in questo momento quel muro...ah che fatica però!!!...che anche qui ci sono tutti quegli archi o scricchiolii.

(Rileggendo questo delirio sui pensieri di “Mary Jane” nemmeno io capisco bene cosa ho scritto. Son scherzi che accadono viaggiando tra le canzoni, quindi va bene così).

“Saturday sun” me la immagino cantata da Billie Holiday o Karen Dalton, usignoli tristi, oppure dalla mia zietta, che anche lei aveva una voce da uccellino, appena, appena incrinata come da un lieve affanno o forse un arrivare un po' dopo. Ascoltandola si veniva pervasi da una specie di grazia zoppicante, un tremolar di candela sul suono di una vecchia radio. Magari forse canticchiava soltanto, ma canticchiare, in certi casi è, ancora una volta un dire di più, dicendo di meno. Vi ho già parlato di quella scienza nota come...ah si, ve ne ho già parlato. Forse non vi ho detto che l'ha inventata il vampiro.

Ma c'è un tipo chiamato Joe Qualcosa , un tipo orsachiottoso con occhiali e barbetta, che quella scienza la conosce.

Joe Qualcosa è uno che mette sul tubo le sue cose, tra le altre un sacco di cover di Nick.

Beh, quella di “Saturday sun” è fantastica e ridotta all'osso, solo un elementare giro di chitarra e la voce giusta. Quel che serve per raccontare di un sabato di sole, dello stupore di una gioia tranquilla che torna e ritorna, idealizzata, ma triste, perchè il sole del sabato è oramai solo la pioggia della domenica.

Oh si, servono solo poche note blu, descrizione della malinconia e cura della medesima.

Intendiamoci la versione di Nick in “Five leaves left” è meravigliosa, ma troppo figa, troppo perfetta. Meglio la versione solo piano (che si trova credo in “Second grace”) che almeno ci viene in mente la sua mamma.

Che poi il fatto della mamma è interessante: secondo Joe Boyd il particolare stile chitarristico di Nick deriverebbe dal fatto che cercava di imitare gli accordi che lei suonava al piano, guarda un po' tu come succedono le cose.

Ma torniamo al vecchio Joe Qualcosa, che magicamente, riesce a far giustizia di una canzone capolavoro...oh lui canta più lento che può e da luce alla melodia, a quelle parole così semplici e toccanti, e la voce è fragile con quell'appena, appena di incertezza degli usignoli tristi...

Ma forse Joe Qualcosa e l'altro vecchio signore di “Way to blue” son solo miei sogni.

Poi certo c'è “Fruit tree”, considerata dai più un capolavoro. Io invece la trovo pretenziosa. Ma comunque mi piace da morire, perché è anche cupa, dolente. E il mio sogno è che un giorno salti fuori un outtake solo voce e chitarra.

Che volete sono un drakiano corrente “Pink moon”.

Stop.

Anzi, no. Ho dimenticato “Man in a shed”: che volete che vi dica, è una bella canzone.

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