“Il cane daglia occhi neri”... la voce di Nick, strozzata e come spenta, non era mai stata così sinistra.
Ora non è più il mattino che canta la notte e questo è davvero un blues disperato e pieno di stanchezza. Nonostante qualche arzigolo alla “Pink moon”qui c'è come una sordina o un bavaglio, un resto di vento che porta appena un brandello di suono.
E' più che sufficiente comunque e, anzi, è ancora una volta quel che serve per rendere l'idea: non ci importa nulla di sapere chi sia esattamente quel cane nero che bussa alla sua porta e che urla il suo nome, se la depressione o o una citazione di Robert johnson o che so io. Basta quella voce. E il tentativo commovente di essere ancora un grande chitarrista.
E finalmente, quasi suo malgrado, Nick si concede di uscire dalla grazia e dalla misura, da quella specie di intensità annebbiata che era solito raggiungere con un lento stratificarsi di piccole luci.
C'è troppa verità, troppa anima qui. Non c'è poesia, c'è l'essenziale. "Sto diventando vecchio e voglio tornare a casa, sto diventando vecchio e non voglio sapere... "
Giovanna la pazza un giorno mi ha detto: “non ho mai fame e muoio di fame”. “Black eyed dog” per me è una cosa del genere.
Ma dove è finito quel Keats ragazzino che cantava "deep down on the depths" e nel profondo ci andava davvero, non importa se con rimasticate romanticherie su improbabili principesse della sabbia? Che era di una principessa della sabbia che parlava “Strange meeting II” , vero?
E quello studentello che dalla sua camera viaggiava nel reame mitico del folk e già sapeva che il segreto di ogni blues canzoncina è il primo riff di chitarra e come entra la voce? Che è un blues canzoncina, “Been smoking too long”, vero?
Ah, son sogni presi a prestito quelli di “Strange meeting II”, avvolti da una specie di nebbia/ polvere da cameretta/spiaggia, ma ci senti già uno zampettare da uccellino Hop e un vagare oltre lo spazio e il tempo.
Sogni presi a prestito da un milione di buone letture. O forse solo qualche libriccino dei poeti amati.
E presa a prestito è anche la retorica dell'eroe in “Been smoking too long”, ovvero quella sorta di dimensione epica da cantore di tutte le sfighe
”Cosa avrò fatto di sbagliato?” si chiede Nick. Forse che qualcuno gli ha fatto volare addosso un po' di terra di cimitero mischiata a polvere di pelle essiccata di serpente? Oppure si è fatto troppe canne? La risposta giusta è la seconda, ma un blues è buono solo se sembra la prima. Ma qui sembra tutte e due, è un blues canzoncina, l'ho detto. Ed è una cover, l'autrice è infatti la sua amica Robyn Frederick.
Ma è questo “Time of no reply”, il blues disperato e il blues canzoncina e tutto quello che ci sta in mezzo: outtakes da “Five leaves left”, stralci dai quaderni d'appunti, versioni alternative di brani dai primi due album e la manciata di canzoni post “Pink moon” (tutte tranne una, “Tow the line, che finirà in “made to love to magic”). Contiene quasi solo canzoni per voce e chitarra ed è un capolavoro al pari dei dischi pubblicati in vita.
Le outtakes da “Five leaves left” sono pura grazia, arrivano da lontanissimo ma sembra di toccarle, quasi fossero li a due passi, e non perse nella loro elegante distanza. Avvolte da un soffio di misteriosa aristocarazia folk/blues riescono lo stesso a toccare nel profondo.
Che sembra, si, di avere delle cordinate precise (quel suono, quella voce) ma di nuovo siam fuori dal tempo e dallo spazio. Sembra, si, una armonizzazione assoluta del silenzio, ma è appena un sussurro, anche se scolpito in una specie di solennità sospesa.
Prendiamo “Clothes of sand”. Ho sempre pensato a questo brano come a quello della perfetta misura, dove la forma arriva al limite della perfezione: la voce è quasi troppo distante, le parole quasi troppo poetiche, l'arpeggio quasi troppo manierato, ma, appunto, quasi. La bellezza vien portata al limite dello stucchevole, ma riesce sempre a tenersi al di qua. E in questa tensione tra la misura e i sentimenti potenti sta appunto il segreto. Che qui la misura è la magia e la magia è quando c'è un limite e subito dopo non c'è più. Provateci voi a tenere sospesa l'ingenuità giovanile e il blues dell'anima, provateci voi a far svolazzare qualche archetipo stantio.
“Joey” é altrettanto bella e solo un po' più terrena. E davvero vien da chiedersi come sia possibile che canzoni come queste sian rimaste fuori da “Five leaves left”.
“Mayfair” è invece solo una canzoncina canzoncina. Ed è anche il quartiere più figo di Londra, quello, tra l'altro, della aristocrazia rock (Beatles, Stones e via dicendo). Li “gli sguardi bui sono nascosti da un potere mistico”. e ci sono solo “facce carine e di ghiaccio”...“Potremo mai vedere il sole a Mayfair, potremo mai vedere la luna, la pioggia?” Che Nick mica resiste, che il sole o la pioggia, ci sono sempre, pressoché in ogni canzone, perché noi li si possa ancora vedere, assieme agli sguardi bui, aldilà di ogni mistico potere del cazzo.
Si, “Mayfair” è solo una canzoncina, canzoncina. Il vampiro la fischietta spesso e sembra di sentire cinque uccellini ubriachi fuori dall'osteria. E, nella versione di “Made to love to magic”, fischietta pure Nick.
Ma forse il cuore del disco è nella manciata di canzoni registrate poco prima della morte, dove, certo, non c'è il suono caldo, pieno di echi e di magia di “Pink moon”. Ma quel che c'è è davvero difficile dirlo.
I testi sono ancora più scarni, la voce ha perso quasi del tutto quel tono so english, so classic e se prima avevo parlato di aristocrazia folk blues, qui l'aristocrazia togliamola proprio.
Rimane solo il folk blues. E che folk blues. Rimangono solo le ombre sul muro, non la candela che le proiettava.
Le fate mai le passeggiate? intendo quelle svolazzanti, nel caleidoscopio fatto di immagini di nulla, tipo pezzettino di cielo o fogliolina. e dove tutto è una voce che ti chiama, perchè è di questo che parla “Voice of the mountain”, una voce che ti chiama e dice che puoi essere libero, ma bisognerebbe confondersi con quella voce, e non ci riesci. Qui Nick è meraviglioso e ricorre ai suoi simboli elementari e primitivi, perché quella voce è la voce del mare e di una stradina di campagna, di una collina e di un albero. Però poi succede che conosci il gioco, conosci il prezzo, conosci il tuo nome, conosci insomma tutta la merda sociale, ma. cazzo quella voce è di più e ti sta chiamando... ed è proprio questo chiamare che Nick ci restituisce con una melodia dalla grazia quasi ultraterrena, cristallina quant'altre mai.
C''è un momento davvero emozionante nella canzone ed è quando “voice” diventa “tune” (melodia),“tune from the hillside and tune full of light, a flute in the morning, chime in the night”. Ecco se dovessi dare una definizione secca di questa canzone sceglierei proprio questi bellissimi versi.
Con la voce che, anche se incrinata, è tutta dolcezza e il suono della chitarra ingenuo e fresco, “Rider on the wheel” non è che una canzoncina folk, luminosa però, come una miniatura colorata dissolta nella luce, o il pezzettino di sole che filtra dalla persiana di un solaio e gioca col pulviscolo. E' una canzoncina dalla forza tranquilla, con una specie di strano calore di cui all'inizio nemmeno ti accorgi e quando arriva è come quando ti fermi per un po' a respirare, e senti tutto il corpo che si risveglia con sottopelle le stelline dell'energia, appena appena crepitanti,
Secondo Nick Kent “Rider” parla della depressione “del vedere la tua psiche sopraffatta da qualcosa che non riesci a controllare, non ci puoi fare niente e allora scrivi una canzone che esprime quello che provi”, può essere, specie se si pensa alle parole iniziali “tu sai il mio nome, ma io non ci sono lo stesso”, che poi in realtà non dice “non ci sono”, dice “non mi sento”, cioè non mi percepisco, più o meno come essere un paese abbandonato. “Noi farfalle stiamo benissimo nei paesi abbandonati”, dice un verso di Franco Arminio...
”Rider” è una dolce cantilena dell'assenza., qualcosa di felice/infelice e forse contiene un segreto. Il suono della chitarra ha uno scintillio che forse c'entra qualcosa con quelle stelline che vi dicevo. La voce non ci provo nemmeno a definirla. (“si”, mi dice una vocina, “non provarci proprio”).
“Hanging on a star” è un brano stupefacente, un delicato urlo blues, una disperata richiesta d'aiuto, "perchè mi lasciate appeso ad una stella, perchè mi lasciate nel mare profondo? "La chitarra acustica credo che sia proprio il gorgo di quel mare, la distanza disperata di quella stella, la voce cerca di liberarsi, anzi no!! dice che non può liberarsi e implora qualcuno che possa farlo, ben sapendo che non lo farà.
Chi, ditemi chi, chi è riuscito mai a cantare canzoni di quattro versi, chi? Forse solo quel vecchio busker che il vampiro ha conosciuto chissà dove e di cui ogni tanto mi parla nelle nostre serate alcoliche, uno che faceva vecchi blues e che se cominciava a improvvisare urlava o sussurrava solo alcune parole chiave tipo sun o rain. E certo quel busker non era Nick che aveva fregato tutti, no, ma il vampiro ha pianto quella volta. Ed è molto bello un vampiro che piange.
Di “Black eyed dog” abbiamo detto.
Tra le alternate takes, segnalo “Fly”, il capolavoro di “Bryter later”, qui in una versione più intima e commovente.
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