Dopo molto tempo, mi sono finalmente deciso a leggere "Life", l'autobiografia che Keith Richards ha pubblicato due o tre anni fa. Non che prima fossi restio o disinteressato a leggerla, solo, fino a questo momento, non ne avevo avuto modo. In pratica, mi ritrovavo in libreria e mi dicevo sempre, "Ah, cazzo, devo prendere l'autobiografia di Keith Richards." Poi, tutte le volte, lasciavo perdere. Probabilmente perché questa autobiografia conta di circa cinquecento pagine e, da qualche tempo a questa parte, sono diventato un lettore troppo poco concentrato, e dei testi così voluminosi hanno cominciato a spaventarmi. Per la verità, ho realizzato di essere spaventato da tutti gli oggetti. Tutte le cose materiali, che mi circondano, mi spaventano e allo stesso tempo sembrano soffocarmi. Delle volte mi sveglio nel cuore della notte tutto sudato e con la sensazione che le pareti della mia stanza e tutti gli oggetti presenti in essa quasi si restringano attorno a me in una morsa soffocante, che mi ammazza il respiro. Gli oggetti mi schiacciano, penso che non vorrei possedere nulla e vivere all'aria aperta, tutto nudo, come facevano i nostri antenati più primitivi. Uno di questi giorni credo che uscirò fuori in giardino e darò alle fiamme tutte le cose che possiedo per poi ballare nudo attorno a un grande falò; danzare attorno a questo gigantesco fuoco con in sottofondo le note di qualche roba forte tipo "Sympathy For The Devil" degli Stones. Per farlo tuttavia: a. Dovrei possedere una casa con giardino; b. Dovrei salvare dalle fiamme almeno il giradischi e un vinile degli Stones. Comunque dovrei possedere una casa, dovrei possedere. Il fatto è che per "possedere" qualcosa siamo obbligati, costretti a essere qualcuno, dovremmo/dobbiamo esistere e io delle volte ho la sensazione di non esistere affatto. Come se fossi un fottuto fantasma. Anzi, sono sottile, più che trasparente, così che tutta l'esistenza, piuttosto che passarmi attraverso, finisce con lo scamazzarmi, con il calpestarmi. Soffocarmi. Quindi sono le cose, gli oggetti, di conseguenza, a possedere me - piuttosto che il contrario. Questo credo succeda perché ho una personalità debole o forse perché soffro troppo. Non lo so. Comunque ho la sensazione di non avere mai raggiunto un equilibrio concreto nella mia esistenza, ammesso sia possibile raggiungere un equilibrio, ottenere un equilibrio. Voglio dire, questa storia del raggiungere un proprio equilibrio che sia "definitivo" infatti non ha alcun senso. Di definitivo, in un certo senso, vi è solo la morte e credo di avere ancora abbastanza voglia di vivere, nonostante tutto. Così, per liberarsi dal senso di oppressione di tutte queste cose, forse la sola via è quella di autodeterminarsi, di scoprirsi. In tutti i sensi. Sia nel senso di mostrarsi all'altri per quelli che siamo veramente, spogliarci idealmente di tutte queste cazzo di maschere che indossiamo tutti i giorni; sia nel senso di finalmente rivelare a se stessi, per primi, quali sono le nostre vere priorità, i nostri veri interessi, chi siamo realmente. Comunque, l'autobiografia di Keef, oltre che avermi causato qualche incubo del tipo ritrovarmi schiacciato in un tomo dalle dimensioni di una gigantesca melvilliana balena bianca, mi sta regalando dei bei momenti di intrattenimento letterario. La trovo molto spontanea, scritta in un modo tirato e diretto, come se fosse un testo di un autore della beat-generation o più semplicemente l'autobiografia di una fottuta rockstar, e i suoi contenuti, com'è inevitabile dato il personaggio soggetto dell'autobiografia, sono sì avvincenti, ma pure allo stesso tempo autentici e custodi di diversi spunti di riflessione e considerazioni. Intanto Keef, nello scrivere, non si preoccupa affatto di essere politically correct, al solito, cosa che per quanto mi riguarda va benissimo così. In genere, possiamo constatare come gli Stones, oggi, stiano sul cazzo praticamente a tutti. La vera grande colpa degli Stones, in effetti, secondo molti pare sia proprio quella di non essere tutti quanti schiattati strafatti di droghe e di essere in un certo modo, così, sopravvissuti a tutta una mitologia che loro stessi hanno sicuramente a creare. Questa probabilmente per molti è una colpa, così come dovrebbe essere una colpa il fatto siano dei vecchi cariatidi e continuino a fare dei concerti davanti a migliaia di persone e, probabilmente, a spupazzarsi delle pollastrelle prima e dopo i concerti; farsi di qualche droga più o meno pesante; guadagnare milioni di dollari per suonare della musica e dire delle cose in cui magari non credono affatto. Il fatto è che riesce difficile pensare gli Stones, questi fottuti ribelli del rock'n'roll, siano diventati dei vecchi arricchiti e strafottenti. Ma, cazzo, sono delle rockstar. Come dovrebbero essere? Non hanno mai condotto, da quando hanno avuto successo, un'esistenza che sia paragonabile a quella di noi comuni esseri mortali e, in un certo senso, la gente li paga proprio perché loro siano così. Li pagano per essere tutto quello che vorrebbero essere. E li odiano esattamente per lo stesso motivo. Comunque lasciamo perdere che cosa pensa la gente, almeno a me frega un cazzo. Per quanto mi riguarda, ad esempio, ok, se gli Stones sono la rock'n'roll band per eccellenza - e questo è certo - il mio preferito della cricca è sempre stato Brian Jones, il biondo chitarrista (e polistrumentista) fondatore, unitamente a Jagger e Richards, della band, e prematuramente deceduto all'età di 27 anni (anche lui, sì) in circostanze tuttora non del tutto chiarite. Jones, si sa, fu infatti rinvenuto morto nella piscina della sua casa a Hartfield, Sussex, Inghilterra. Si parlò di morte incidentale, tesi avvalorata all'epoca anche dal fatto Jones avesse praticamente il fegato (e il cervello?) spappolato a causa degli eccessi di droghe ed alcol. Poi nei primi anni del nuovo millennio, tale Frank Thorogood, costruttore edile che all'epoca conduceva dei lavori nella casa di Jones, pare abbia confessato di averlo ucciso lui. Confessione fatta sul letto in punto di morte all'autista degli Stones: una versione quindi secondo molti, Richards incluso, assai discutibile. Ad ogni molto, non volendo divagare nel merito, su Jones vi rimanderei alla visione di Stoned (2005) di Stephen Woolley e all'ascolto di tutte le cose fatte che ha suonato e registrato con e senza gli Stones. Quindi, se proprio vi appassionate, anche all'ascolto dell'intera discografia dei Brian Jonestown Massacre di Anton Newcombe.
Il ritratto di Brian Jones che esce fuori dall'autobiografia di Richards, comunque, è assai discutibile, sicuramente negativo. Nonostante dalla morte di Jones (3 luglio del 1969) e la pubblicazione di "Life" (2010) passino trent'anni, Richards mostra di serbare ancora una qualche sorta di rancore nei confronti di Jones, né gli risparmia delle critiche e delle note di biasimo. Che comunque è un atteggiamento preferibile a una commemorazione ipocrita e affaatto sentita. In buona sostanza, Keef descrive Jones come un uomo affllitto da tutta una serie di complessi di inferiorità, una persona assolutamente instabile, totalmente allo sbando nel momento in cui la band aveva raggiunto il successo e di conseguenza incapace di stargli dietro. Un tipo inaffidabile, tanto che, un mese prima della sua morte, Jones fu allontanato dagli Stones e rimpiazzato da Mick Taylor. Fatto sta, comunque, che i rapporti tra i due chitarristi erano praticamente arrivati al limite, saltati e definitivamente compromessi, anche a causa del fatto Richards gli aveva "soffiato" una gran fica come Anita Pallenberg. In definitiva, non sono molte, quindi, le belle parole spese da Keef per Jones. Pure se nella sostanza gli riconosceva il grande merito di avergli fatto ascoltare per la prima volta Robert Johnson (roba non da poco, se consideriamo che ascoltare Johnson è qualche cosa che ancora oggi riesce a "aprire gli occhi e la mente" a molti musicisti o semplici appassionati di musica); di essere un chitarrista e un musicista tutto sommato geniale, sebbene assolutamente scostante. Quando si erano conosciuti, inoltre, dice che Jones si faceva chiamare Elmo Lewis e che, all'epoca, avrebbe voluto diventare il famoso chitarrista blues Elmore James. In pratica, come poi anche Jagger e Richards del resto e come diceva la famosa canzone di Nino Ferrer, Brian Jones avrebbe voluto diventare, avrebbe voluto essere nero.
Il fatto, al di là di questioni puramente cromatiche che potrebbero interessare solo a degli appassionati di tematiche di tipo razziale o a qualche fanatico del tipo Michael Jackson, è che la "musica nera" all'epoca in Inghilterra, come negli USA e nel resto del mondo, era sicuramente la musica che più incarnava quella voglia di ribellione e di uscire fuori dagli schemi tipica della generazione di cui Richards e gli Stones saranno poi manifesto. La musica nera era il sound da cui poi sarebbe effettivamente stato partorito in quegli anni il rock'n'roll, e così fu. Del resto, Robert Johnson a parte, lo stesso Richards sostiene di avere fatto indigestione dei dischi di gente come Jimmy Reed, Bo Diddley, Muddy Waters, il più noto Chuck Berry. E che furono questi a influenzarlo, che erano questi i modelli cui guardava, più che un "gigante bianco" come Elvis Presley. Come gli Stones, anche Nick Waterhouse, in questo disco intitolato "Time's All Gone", si ispira dichiaratamente alla "musica nera". Non solo, questo disco, che ho da subito trovato assai gradevole e pure di facile ascolto (siate o meno degli appassionati di rhytm & blues), è effettivamente un disco di musica nera. Solo che Nick Waterhouse ha 25 anni, viene dalla California e, soprattutto, così come viene ritratto sulla copertina del disco, è un ragazzo bianco e pure dal colorito assai pallido e "malaticcio". Indossa, inoltre, un paio di occhialoni, che rimandano direttamente a Buddy Holly; un paio di occhialoni di quelli che si portavano negli cinquanta o sessanta e che mia madre odiava tantissimo perché praticamente, dato che il suo vecchio non aveva un soldo, gliene poteva comperare solo di quel tipo e all'epoca, questi occhiali, non erano certo un modello particolarmente alla moda - a differenza di ora per la verità, che sembra questo tipo di occhiali sia particolarmente di moda. Conosco persino gente che ci vede alla grande e che porta questi occhiali per scelta, una scelta che per quanto mi riguarda non ha alcun senso: sarebbe come avere il pieno possesso delle articolazioni inferiore e camminare su di una sedia a rotelle o, più semplicemente, sulle mani. Comunque questi occhiali erano tanto caratteristici e distintivi dell'epoca quanto indistruttibili. Mi racconta la mia vecchia che, una volta, in preda a una crisi di pianto tipicamente adolescenziale, gettò gli occhiali giù dalla finestra della sua stanza. Beh, non ci furono cazzi. Voglio dire, il nonno scese pazientemente dabbasso, recuperò gli occhiali dalla strada e, quando torno su, li restituì a mia madre che questi erano praticamente nuovi, intatti, come se nulla fosse accaduto. Non vi inviterei a fare lo stesso con i vostri occhiali, dato che dubito questi potrebbero sopravvivere all'impatto, a una prova di questo tipo. Senza volere essere nostalgici di un'epoca che non mi è mai appartenuta, possiamo sicuramente sostenere che, a differenza di oggi, all'epoca le cose erano fatte per durare. Anche troppo probabilmente. Tornando a "Time's All Gone", invece, il disco, registrato ai Gold Star Studios Lathe di Los Angeles, California (roba forte praticamente) ricalca quindi nella pratica esattamente quel tipo di sound che andava in voga negli anni cinquanta e che il giovane Nick sembrerebbe conoscere e avere studiato alla perfezione. Di più: quella di Nick Waterhouse è un'operazione di vera e propria emulazione dei protagonisti di quella stagione musicale. Occhialoni a parte, fa praticamente di tutto per rendere il suo look, il suo aspetto, la sua figura del tutto in linea con gli standard dell'epoca. Ispiratosi da principio ai Blues Brothers, sostiene poi di avere mutuato il suo look da quello di Dick Van Dyke; cita a memoria Ray Charles; suona una Martin del '63 e usa amplificatori dell'epoca. Ciononostante, Waterhouse sostiene comunque di non volere fare nessuna opera di recupero e semplice calco di roba che era suonata anni e anni fa, di non voler fare semplicemente "archeologia" dunque, ma di volere piuttosto a suo modo reinterpretrare il sound dell'epoca, così da far rivivere oggi quelli che considera due mostri sacri, come John Lee Hooker e Etta James. Operazione pure lodevole, ok, sotto un certo punto di vista e in larga parte pure riuscita, se sto ascoltando questo disco da qualche giorno e, sinceramente, senza trovare nessun punto debole o particolare difetto. Anzi, il ragazzo sembrerebbe essere perfettamente riuscito nel suo intento: cioè, mascherarsi da nero degli anni sessanta. Il disco è ben registrato, vanta una produzione di prima scelta ed è suonato da una band di musicisti, The Tarots, di tutto rispetto. Certo la qualità della registrazione è alta e il sound veramente troppo poco polveroso - nonostante le rullate di batteria, in particolare, siano proprio tipiche di quel sound - ma sinceramente lo si potrebbe pure benissimo scambiare per un disco di quegli anni. Insomma, poi questo ragazzo, Nick, mi sembra sia anche abbastanza sincero: si sente che ci crede veramente in quello che sta suonando, che è un tipo appassionato e che questa roba gli piace sul serio. Il fatto, tuttavia, è che Waterhouse è bravo a mascherarsi da "nero", ma praticamente incapace, nel contesto, di comunicarci chi lui sia realmente. Questo disco è bello, compratelo, scaricatelo, ascoltatelo, ma nella sostanza non dice e non dirà mai nulla su chi sia veramente Nick Waterhouse. Né, allo stesso tempo, lo si può di conseguenza definire effettivamente un disco di musica nera in quanto a contenuti e vera e propria forza nel comunicare. Questo disco è come se gli Stones non fossero mai esistiti. Agli Stones, come a Muddy Waters o Robert Johnson, a John Lee Hooker, non è mai importato di ricalcare, di suonare delle cose che venivano suonate cinquant'anni prima. Di vivere cinquant'anni indietro nel tempo. Personalmente mi trovo spesso a discutere di musica con dei miei coetanei, amici di vecchia data e sin dati tempi del liceo; per lo più si tratta di tutta gente che, a livello di ascolti, ha mollato. Tutti questi, ma questo è sicuramente un vizio largamente diffuso, restano, sono tuttora ancorati agli ascolti degli anni in cui erano ragazzi, come se queste cose, come se i dischi di band come Nirvana, Pearl Jam o Alice In Chains fossero l'unica verità possibile e tutto quello che sia venuto dopo sia praticamente merda o un ricalcare delle cose già fatte. Come se nessuno oggi abbia più un cazzo da dire, come se noi tutti non si abbia un cazzo da dire e tutti sia finito. "Cazzo, ragazzi, il rock è morto con Kurt Cobain!" Tutte balle ovviamente. Dire che il rock sia morto equivale a dire che la letteratura, la politica, il genere umano tutto sia fottutamente morto. Ma questo è impossibile. E' impossibile sostenere il rock sia morto nel momento in cui, per fortuna, c'è ancora in giro della gente che ha voglia e piacere di suonare della propria musica e, soprattutto, tante altre persone che hanno voglia di ascoltare, di confrontarsi. E' impossibile che siamo morti, se abbiamo ancora voglia di sentirci vivi. Comunque, Nick Waterhouse fa parte ancora di un'altra categoria. Non ha alcuna nostalgia, difatti, degli anni in cui era ragazzo, ma vive, vuole vivere in un passato che non gli è mai appartenuto. Non sento la sua presenza in questo disco: è come se lui fosse altrove, infatti, e sia perso in una realtà temporale che, gioco forza, non gli appartiene e non gli è mai appartenuta. I perché li sa solo lui. Non voglio dire, difatti, Nick Waterhouse non abbia effettivamente un cazzo da dire. Tuttavia, nella sostanza, non ci dice un cazzo di lui, non ci dice un cazzo di noi stessi e di quello che siamo. Così, mi riesce così difficile a questo punto parlare di "musica nera". Gli Stones, Mick Jagger e Keith Richards volevano suonare la musica dei neri, volevano essere neri perché volevano rompere con tutto quello che era successo in passato - di più, volevano rompere con il presente, avevano quella voglia di spaccare il mondo, che significa poi voglia di vivere, che è tipica, che dovrebbe essere tipica di tutti i ragazzi. Brian Jones anche voleva essere nero e, probabilmente, non ci è riuscito: non è riuscito a essere veramente se stesso, perché è rimasto schiacciato da tutte le cose che aveva, che lo circondavano e, quando queste hanno cominciato ad aumentare, probabilmente ha cominciato a soffrire ancora di più. "Time's All Gone" ok, ma dove cazzo ti nascondi Nick, chi sei veramente?
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