La musica di Nico è fuori dal tempo, ed è solo un futile dettaglio che "The Marble Index" ("Chelsea Girl", non lo considero neppure) sia uscito nel 68, perché sarebbe potuto uscire ieri come fra cent'anni. Molti la definiscono dark ante litteram, ma questa musica è qualcosa di più, è qualcosa di ultraterreno, che appartiene al passato remoto o al futuro più lontano, tanto che potrebbe descrivere i paesaggi desolati della preistoria come quelli devastati dell'Apocalisse. Nico sembra parlarci da un altro mondo, e la sua voce, così sofferta ed al tempo stesso disincantata, nel suo cosmico fatalismo acquisisce la consistenza di un gelido vento che soffia sulle rovine di un'immane catastrofe, la tragedia dell'Umanità, destinata a perire, come tutto del resto, fagocitata da un universo in cui tutto è precario ed inconsistente.
Nico non inventa niente, ma è in grado di allestire un sound totalmente avulso dal suo tempo, e, potremmo aggiungere, completamente avulso da questo mondo. Se ogni moto ha una causa, cosa allora originò il primo moto?, potremmo chiederci, cosa portò allo sbocciare di questo fiore? Come un piccolo big bang, la musica di Nico sembra nascere più da un cortocircuito interno che da una causa esterna. Ma invece di dare vita ad un universo, la musica di Nico rappresenta l'implosione di una galassia, un buco nero, una porta che dà su un'altra dimensione.
"The End", del 74, conclude la trilogia ideale iniziata con "The Marble Index". Non è l'apice artistico di Nico, ma riesce nel difficile intento di approfondire il discorso intrapreso con i due illustri predecessori ed in particolare con il capolavoro assoluto "Desertshore". Si viene qui a completare quel percorso di estraniazione, quell'opera di riduzione che punta all'essenziale e che fa di questa arte un qualcosa di autistico e totalmente auto-referenziale, dove gli unici punti di riferimento rimangono certi influssi folk, un'oscura musica da camera, sprazzi di avanguardia minimale. E naturalmente la poetica della Fine ereditata da Jim Morrison, amico e maestro, a cui peraltro è dedicato questo lavoro.
A prevalere è come al solito lo scarno recitato di Nico e il suo oscuro harmonium. Nel sottofondo si continuano ad apprezzare gli alambicchi di quel premio Nobel per la genialità che è John Cale, che si dà da fare come un pazzo, fra basso, piano, organo, percussioni e trabiccoli vari per dare corposità al sound della nera sacerdotessa. Poco influenti risultano invece le spennellate di sinth di Eno e le sporadiche incursioni della chitarra dei Roxy Music Phil Manzanera, annullati dall'intensità della performance della protagonista.
Il trittico iniziale è da brividi: l'opener "It Has Not Taken Long" ci assale con un vorticoso giro di organo che porta il marchio a fuoco di Cale e che ricorda non a caso i Velvet Undergound più paranoici, quelli di "Venus in Furs" per intenderci. Ed è allucinante pensare che quella voce macabra che affonda fra i cori dei bambini, sia la stessa, forte ed epica, che troviamo subito dopo nella medievale "Secret Side". La stessa voce, sofferta e rassegnata, che ricama il triste canto di solitudine nella ballata pianistica "You Forgot to Answer". Che voce, ragazzi: le parole sono scandite come in un sermone, le sillabe sono spigoli che bucano la pelle, e quel lugubre registro asessuato, sempre uguale a se stesso eppure sempre così diverso, porta in sé il paradosso di essere un nero dalle mille sfumature.
Non tutto il resto si assesterà a questi livelli, ma l'album prosegue più che dignitosamente fra gli strappi rumoristici di "Innocent and Vain", il niente di "Valley of the Kings" (per sola voce ed harmonium, agghiacciante nella sua essenzialità), l'esoterismo da alchimisti di "We've got the Gold". Piccoli monoliti di desolazione che ci accompagnano all'apice dell'album, i dieci minuti di "The End". Sì, propria la "The End" a cui state pensando, quel monumento della musica rock che è "The End" dei Doors. Ebbene, quando si pensa ai classici immortali del rock popolare, oramai indelebilmente impressi nel DNA dell'immaginario collettivo, come lo sono per esempio "Stairway to Heaven", "Child in Time" o "Yesterday", si pensa a qualcosa d'immutabile ed intaccabile, a cui non si può cambiare una virgola senza generare uno stridore in noi tanto li abbiamo (volenti o nolenti) assimilati e cristallizzati in quella forma ben precisa. Eppure Nico riesce anche in quest'impresa, facendo proprio questo grande classico, stravolgendolo senza che peraltro l'ascolto risenta dell'irritazione fisiologica di cui ho appena parlato.
Laddove la "The End" di Morrison rievoca paesaggi desertici ed assolati, come il (pessimo) film di Oliver Stone ci suggerisce, la versione di Nico assomiglia piuttosto ad una discesa negli Inferi: fra teatro shakespeariano, psicoanalisi e tragedia greca, questo viaggio spirituale viene spogliato del rock, della psichedelia e di qualsivoglia altro riferimento terreno, fino a divenire qualcosa di metafisico, metafora artistica dell'approssimarsi alla Fine.
Ambientata in piena notte, o meglio sottoterra, dove il sole non batte mai, la song è una situazione interiore che scava talmente nel profondo da divenire qualcosa di universale, e tale è il suo potere estraniante, che sembra davvero di percorrere un oscuro tunnel, aprire porte e varcare soglie verso luoghi segreti e tenebrosi. Non è il proverbiale giro di chitarra di Robby Krieger a guidarci, ma l'ipnotico incedere dell'harmonium e dell'organo e i colpi casuali di piano di Cale, che danno al tutto un senso di tragedia imminente. E il flusso di coscienza di Morrison è qui sostituito dalle fredde e didascaliche descrizioni di Nico, lungo il corridoio, porta dopo porta, fino al celebre conflitto edipico: "Father? Yes, son. I want to kill you… Mother? I want to… ", ma non sarà il grido da ganzone degli anni sessanta che c'aspettiamo a scuoterci, bensì un rantolo che si perde nel vuoto, e che apre al crescendo finale, di percussioni, chitarra e piano.
Il tributo alla terra di origine, la conclusiva "Das Lied der Deutschen", ci riporta in questo mondo, ricordandoci che Nico è pur sempre un essere umano, né più né meno, ma la sua musica, più che unica, rimane qualcosa di irripetibile nella storia, e farne a meno sarebbe davvero un peccato, anche per lavori "minori" come questo. A buon intenditore…
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