Ogni tanto, ciclicamente, congiunta a chissà quale evento (stagionale, estemporaneo, mentale), Nico ritorna nella mia vita.
Magari sono già passati due anni dall’ultimo ascolto, ovviamente assillante, quasi abusivo per la mia salute psichica, quando sfinito avevo di soppiantarla in fretta con suoni che ne urlassero la distanza – che ne so, Skylarking, Pithecantropus Erectus e The Low End Theory l’uno dopo l’altro, anche se a rifletterci… ma non è che un arrivederci sornione da parte sua, del tipo “tanto ci ricaschi, io sono sempre qui”.
Non ho voglia di liberarmi di Nico, è solo una pausa salutare, uno sganascione d’ossigeno in attesa della prossima ricaduta. Poi di stimoli stuzzicanti se ne trovano sempre – una nuova biografia, sempre peggiore della precedente; video, testimonianze e omaggi su YouTube, il frammento del film dove appare per 30 secondi, La dolce vita che ripassa in sala, scaricare L’Enfant secret di Garrel (e guardarselo pure!).
Non c’è bisogno di teorie e d’analisi complesse, gran parte dell’ossessione per Christa Päffgen nasce da una duplice mitologia, alimentata da una cinquantina d’anni a questa parte dalle fonti più disparate: l’album d'esordio dei Velvet e la trasformazione da donna più bella del mondo a freak tossica in una sequenza quasi cronenberghiana.
Della musica di Nico se ne parla a volte come di un fatto incidentale rispetto alla vera narrazione, una stramberia deprimente e poco più. E uno si dice, pure un ultimo insulto alla sua memoria.
Nico era uno spirito guasto, un caratteraccio di merda (a voler essere garbati), una palla al piede per coloro che l’hanno frequentata e sopportata negli anni finali, e allo stesso tempo una creatura fragilissima e una compositrice aliena, autentica e inaudita, seppure con tutti i limiti espressivi che si era imposta, dall’harmonium all’ossatura funebre dei brani.
La sua è anche la storia di un’ostinazione leggendaria. Non-musicista prima di Eno (e non un caso che i due si rispettassero incondizionatamente), con una voce assurda e per tanti respingente, si inventa artista unica rinserrandosi in stanze buie al solo chiarore delle candele, a ripetere allo sfinimento le scale sulla tastiera del suo strumento portatile (la povera Viva, ex-superstar di Warhol che ospitava Nico in quel periodo, ne ha parlato spesso e la perfida descrizione è esilarante).
https://thebluemoment.com/2015/11/17/nico-in-london-1971/
L’apprendistato di Nico all’harmonium segue una progressione armonica che non ha niente a che vedere con i suoi contemporanei, il suo universo musicale è in un medioevo astratto e immutabile più che nella ribollente scena del rock anglosassone. E se tanti altri e ben più famosi artisti si precipitavano in India per scrollarsi di dosso un’ingombrante occidentalità autoreferenziale, Nico sprofonda nella propria autarchia musicale come all’interno di una camera iperbarica.
Gli album di Nico, escludendo l’ancor più sfortunato Drama of Exile, sono anche il risultato dell’amicizia e della collaborazione fusionale con John Cale. Sembra che la sacerdotessa delle tenebre e il Principe degli arrangiamenti in realtà non lavorassero l’uno accanto all’altra ma in perfetta solitudine. Cale interveniva su uno scheletro voce/harmonium già definito, e se le discussioni finali erano tutt’altro che placide, i due europei esiliati dai rispettivi Paesi finivano sempre per intendersi.
Che cosa, dunque, rende interessante la doppia raccolta The Frozen Borderline: 1968-1970 rispetto ai singoli The Marble Index e Desertshore considerati la summa musicæ della produzione di Nico?
Innanzitutto, oltre alla veste grafica e all’eccellente rimasterizzazione, il poter ascoltare i due album come testimonianza di una fonte ispirativa comune, che devia e si riposiziona con interventi minimi ma percepibili nel corso di quei due anni. Nico col tempo migliora sia vocalmente quanto dal punto di vista compositivo, anche se molti preferiscono l’inospitale barbarie di Marble alla più calibrata disperazione di Desertshore. Nel primo Cale è più invasivo (per quanto si parli sempre di intromissioni molto misurate) e sopperisce alla limitata esperienza di Nico da alchimista di suoni e rumori, giocando tra tonalità e concretismo, classicismo ed elettricità. In Desertshore l’ex Velvet è (con un’unica eccezione) più un accompagnatore, consapevole che la sua problematica protégée ha piena maestria della propria arte.
L’altro motivo che rende la raccolta necessaria è la presenza di numerosi outtakes e versioni alternative. In altre occasioni contributi del genere non sono che scarti superflui e lagnosissimi messi lì per fan e completisti. In Frozen Borderline (stavo per scrivere solo Frozen prima di accorgermi del pericolo) le versioni primigenie per soli harmonium e voce di questi classici oscuri sono piccole sorprese che ci proiettano indietro alle iniziali intenzioni di Nico, spesso smussate dal cesello del gallese.
Ho ancora memoria della prima volta che ho ascoltato You Are Beautiful, traccia primitiva di quella che sarà in seguito la nota (e fenomenale) Afraid, forse l’unica concessione romantica e conciliante della Nico post-Chelsea Girl, col pianoforte e la viola di Cale a condurre la danza. Qui è un altro brano, più febbrile, angosciato e atonale, ugualmente irrinunciabile, cantato persino su un’ottava superiore (nel limite dell’estensione di Nico, ovvio). E verso la fine, per scusarsi di un’imprecisione la sentiamo sussurrare “It doesn't matter that I hit another note ... it's not... just a demo”.
Commozione, sipario.
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