Sebbene la sua uscita sia passata criminalmente sotto silenzio, “Space Gypsy” è stata una delle prove più sensazionali dello scorso anno. Prima di tutto perché ad apporre la firma sulla sua copertina è uno che il 26 agosto 2013 spegneva la settantatreesima candelina: Nik Turner, classe 1940, sassofono, flauto e voce dei mitici Hawkwind, in essi militante dalle origini fino alla fine degli anni settanta, poi guru indiscusso dello space rock negli anni a venire (si perde il conto delle sue collaborazioni o semplice comparsate). “Space Gipsy” (un titolo, un programma) è il suo ultimo lavoro sulla lunga distanza, dopo una latitanza discografica (come solista) più che decennale.

Album sensazionale, appunto, perché incredibilmente fresco, vitale, energico: caratteristiche che non sono tipiche di chi si porta sul groppone più di quarant'anni di carriera (e non credo che nel corso degli anni il Nostro si sia riguardato più di tanto). Un po' come l'antico compagno d'armi Ian “Lemmy” Kilmister (ultimi acciacchi a parte), Turner passa inossidabile in mezzo alla insidie della vecchiaia, come se il rituale spaziale consumato agli inizi degli anni settanta avesse donato ai componenti degli Hawkwind l'aura dell'immortalità. E nel 2013 pubblica l'album che potrebbe fare la gioia non solo di coloro che da sempre venerano la band madre, ma anche di quelli che trasecolano ogni qualvolta che manifesta l'imponenza di un rock duro, roccioso, martellante, iniettato di visioni/allucinazioni mutuate dalla psichedelia più nera, morbosa, stordente. Fascino vintage, ovviamente, ma niente di spudoratamente revivalistico.

Cinquanta minuti in cui viene eretto un autentico monumento sonoro, un monolite di kubrickiana memoria (per l'occasione riverniciato con colori fluorescenti), fluttuante nella vastità di un firmamento punteggiato da costellazioni fatte di figure grottesche e fantastiche: è lo Space Ritual che immortale si rinnova nell'odierno, il colossale vascello a forma piramidale (e non lo dico a caso, visto che i riferimenti alla mitologia Maya e a quelle egiziana, da sempre fonti ispiratrici per il musicista inglese, sono ancora presenti), che ci traghetterà lungo le tappe di un viaggio interstellare attraverso le spire di dimensioni sconosciute, epoche (musicali) passate; un viaggio che si ammanterà di umori arcani, atmosfere fiabesche, sfrontatezza, rischio, voglia di azzardo, e il nero e il terrore dell'ignoto.

Ed allora partenza! “Fallen Angels STS-51-L” e “Joker's Song” sono due mazzate che vedono sugli scudi la chitarra sferragliante di Nicky Garratt e il basso di Jeff Piccinini, entrambi con dei trascorsi nella scena londinese punk di fine anni settanta (e si sente). Per non parlare dell'assalto batteristico di Jason Willer (generatore inarrestabile di ritmi e pulsazioni astrali) e dei sintetizzatori, del mellotron e dell'effettistica allucinogena (squisitamente space!) a cura del tedesco Jurgen Engler, già nelle fila dell'industrial act Die Krupps. Parlare di super-gruppo non è fuori luogo, considerato che all'impresa parteciperanno niente meno che Simon House (High Tide) e Steve Hillage (Gong), pezzi da novanta della musica progressiva non convenzionale della decade settantiana: il violino del primo e la chitarra del secondo saranno così il prezioso complemento all'esperienza cosmica messa in scena da Turner, che di suo ci mette la voce, una calata spettrale, riverberata, remota, sfasata, un lamento fuori dal tempo, “fuori-tempo” rispetto al furore incendiario delle jam spaziali da lui dirette ed in particolare rispetto allo spirito d'improvvisazione che anima il contorcersi (ora selvaggio, ora suadente) degli strumenti a fiato da egli stesso maneggiati.

Sensazione, questa, che ben percepiamo con la monumentale terza traccia “Time Crypt”, con la quale l'opera cambia passo, assumendo un andamento più cadenzato e, se vogliamo, più doom, sepolcrale, misterico. La voce di Turner è quella di un sacerdote dopato che, con tunica luccicante e megafono in mano, ci parla di imprese impossibili e storie, mondi a noi alieni: magia, fantasmagoria allo stato puro, quasi una Religione. Ecco che, liberate dal peso dell'armatura elettrica, le due tracce successive, “Galaxy Rise” e “Coming of the Maya”, approdano alla dimensione acustica: la prima, una ballata folk/prog in stile King Crimson prima maniera (beninteso: dei King Crimson inzuppati dalla testa ai piedi in un barile di LSD); la seconda, dall'andamento ipnotico che non può non ricordare i Pink Floyd più lisergici del periodo di “A Saucerful of Secrets” (e non è un caso che Turner in passato abbia coverizzato “Careful with that Axe, Eugene”).

Degli stessi ingredienti si compone l'egualmente valido lato B: se con “We Ride the Timewinds” (una cavalcata kraut scossa dal battito forsennato delle bacchette di Willer) l'astronave torna a galoppare a velocità sostenute, con la successiva “Eternity” (altra intrigante ballata spaziale) ci si concede una pausa, atterrando dalle parti di “Planet Caravan” (e non è fuori luogo tirare in ballo l'Ozzy più visionario). “Anti-Matter” e “The Visitor” fanno una bella coppia, rappresentando la fase più squisitamente progressiva dell'opera: maestoso il sax nella prima, che, intervallato dalle suggestive narrazioni di Turner, tesse arioso la colonna sonora perfetta per un ideale poliziottesco fantascientifico; irresistibile l'andamento scanzonato della seconda, quasi sette minuti, un folk anarcoide e libertario, che nella seconda parte si stempera in toni psycho-ambient, dove entrano in campo gli strumenti in chiave solista (vera psichedelia da disgregazione cosmica).

La bonus-track “Something's not Right” chiude il discorso recuperando il lato più duro dell'arte visionaria di Turner, che con quest'album – è brutto dirlo – dimostra di avere delle palle grosse come asteroidi.

E i bimbi... prendano appunti, please.

Carico i commenti...  con calma