Quando nel 1999 Nina Nastasia fece capolino sulla scena musicale americana con l’esordio “Dogs”, si impose con uno stile fresco e colloquiale, che faceva tesoro degli insegnamenti di cantautrici come Joni Mitchell e Lisa Germano. Il successivo “The Blackened Air” presentò un’artista più matura, dura, cupa, ambiziosa, meno verbosa e più criptica, molto vicina alla conterranea Shannon Wright, immagine confermata dal terzo disco, forse il suo capolavoro, il più conciso e affranto “Run To Ruin”.
Oggi, a sette anni dall’esordio, la Nastasia è ancora quel purissimo talento che avevamo intuito rigirandoci tra le mani incredule il debutto: stesso timbro drammatico e dolente, stesso stile avvolgente ed elegante.
“On Leaving” però è un disco più semplice ed essenziale dei primi lavori dell’autrice, più lineare e meno sperimentale del predecessore. Un disco minore ? Un disco di transizione ? Forse, ma un’opera sublime, grandiosa, magnificamente in bilico tra la tradizione americana, il folk e un classicismo d’altri tempi. Prodotto dal fidato Steve Albini, di cui Nina è, fin dagli esordi, una sorta di protégée, “On Leaving” è innanzitutto un disco acustico. Chitarra, piano, e una batteria estremamente discreta pennellano lo sfondo di ogni brano, supportati eventualmente da un violoncello e una viola, capaci tanto di minacciose dissonanze (“Jim’s Room”) quanto di un fraseggio etereo e limpidissimo (“Counting Up Your Bones”).
La qualità più appassionante è però il suo timbro vocale, che può essere ora sicuro e grintoso come una Liz Phair (“One Old Woman”), ora educato ed inappuntabile come una Sarah McLachlan (“Our Day Trip”). Tolte le eccentricità armoniche e ritmiche e la patina di umore afflitto e contrito che albergavano in “Run To Ruin”, l’album può comunque contare su alcune canzoni che sono semplicemente immense. “Why Don’t You Stay Home”, una dolcissima serenata che implora cura e affetto, è composta con un’attitudine così liricamente femminile da coniugare meravigliosamente grazia e poesia, mentre piano e chitarra cullano lentamente la timida melodia e la voce si protende dolcissima verso l’eterno (“Not much I can think of… We cut down the oak last year”). È il suo impeccabile fingerpicking e poco altro a scenografare il seducente confabulare di “Lee”, poco prima che un pianoforte alla Debussy e gli archi diano al brano un tono solenne, malinconico, altamente evocativo, mentre le filastrocche solo apparentemente leggere di “Jim’s Room” e “Dumb” nascondono tra le righe sconforto, fragilità e disagio (“Dumb I am and a weak one too”). L’apice emotivo è probabilmente la toccante “Settling Song”, rassegnata constatazione di un fallimento (“I will lay myself down… our innocence lost in the plan”).
L’incantevole finale di “If We Go To The West” non è da meno, una marcetta che si perde deliziosamente nel vuoto, quasi scevra di sensazioni, maliziosamente impreziosita da casuali incursioni del pianoforte. Il disco procede così, magnificamente scorrevole, come un flusso di coscienza, approntato alla meditazione, alla serena contemplazione dei propri raggiungimenti e rimpianti.
E così, mentre i trentaquattro minuti di durata volgono al termine, e i contorni di questo affresco sfumano delicatamente nel ricordo, ci si ritrova orfani del sussurro angelico, del narrare sottile, del rassicurante stile da cantastorie di quest’artista forse meno ambiziosa di un tempo, ma più adulta, consapevole, equilibrata, meritevole, oggi più che mai, di un posto di rilievo accanto alle più dotate cantautrici della sua generazione.
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