C'è un posto sul pianeta dove non si sta coi piedi per terra, ma non per mancanza di modestia, bensì perché da anni ormai si è imparato a levitare e se ne gustano appieno i meravigliosi influssi.
Noi poveri mortali, che coi piedi per terra ci stiamo eccome, presi come siamo dai problemi e dalle difficoltà di tutti i giorni, spesso tramutiamo la somma di tali problemi e difficoltà in pensieri poco nobili, in una bella bevuta per dimenticare, in un luculliano cannone d'erba per rilassare anima e corpo, in un pediluvio mentre facciamo le parole crociate, in una ennesima partitella a Pro Evolution Soccer 4, il tutto allo scopo di andare infine a farci una bella dormita e svegliarci possibilmente domani con qualche scazzo in meno di ieri.
In quel posto di cui sopra, nascosto a chissà quale latitudine, le persone che levitano leggermente venti, trenta metri sopra il cielo hanno qualche problema in meno rispetto a noi, ma dei nostri problemi e difficoltà si fanno messaggeri, mettendo in musica tutto quello che noi accumuliamo nel cervello in attesa della prossima implosione.
Dicono quello che noi non riusciamo a dire, almeno lo dicono con parole che noi, anche frugando in maniera certosina nel nostro sacco, non troveremmo mai.
A farsi portavoce di questa missione, la missione di raccontare la vera condizione umana vista dal di dentro e non dal di fuori, ci pensa ancora una volta il santone David Sylvian, che liberatosi finalmente della catena psicologica con cui la Sony se lo teneva stretto fino al 2002, chiama a sé un ennesimo manipolo di collaboratori pressoché sconosciuti ai più e partorisce un disco d'altri tempi, nel senso che è avanti di almeno 15 anni.
E per essere avanti al giorno d'oggi non per forza bisogna affidarsi all'elettronica esasperata, ma ad un sano minimalismo che porta l'ascoltatore alla sensazione effimera che ciò che si sta ascoltando sia facilissimo da suonare, mentre aguzzando l'orecchio si noteranno miriadi di impercettibili variazioni sui temi, che rendono tale lavoro una specie di crocevia fra il jazz, la fusion, l'ambient e l'avanguardia.
Sylvian per questo esperimento ha voluto accanto a sé il fratello inseparabile Steve Jansen e un drappello di gente che sa benissimo quello che sta facendo, e lo fa divinamente.
Del gruppo fa parte infatti il compositore elettronico tedesco Burnt Friedman, che già aveva avuto a che fare con il Nostro nelle atmosfere da vicolo cieco create nel remix di "Late Night Shopping" l'anno scorso, ed al quale Sylvian aveva ricambiato il favore comparendo nell'EP "Out In The Sticks".
A differenza di Christian Fennesz, che aveva letteralmente folgorato il Guru con la sua tempesta a base di puntine Stanton decapitanti vinili e radio in perenne zapping sulle onde corte, Burnt Friedman elabora dei tappeti elettronici leggerissimi, a volte semplicemente accennati, e se si perde qualcosina quanto ad innovazione propriamente detta, se ne guadagna in godibilità degli altri strumenti e soprattutto della voce senza tempo di Sylvian, ormai personaggio che passeggia tranquillamente sull'esile confine fra sogno e realtà.
A fare spesso da collante fra l'elettronica di Friedman e l'estasi perenne di Sylvian, il trombettista norvegese Arve Henriksen che riesce a muoversi terribilmente a suo agio fra varie sonorità poco consone al suo strumento. Se proprio devo dirla tutta, credo che un Miles Davis ancora vivo avrebbe fatto carte false per avere i pentagrammi di tale lavoro.
Merita un plauso anche la cantante svedese Stina Nordenstam, che appare subito nella prima traccia del disco, la swingata "Wonderful World", con uno stile che sta a metà fra Erikah Badu e Björk. Ho appena scritto una similitudine impossibile? Ascoltatela e preparatevi a rimanere attoniti. Roba che per una volta nella vita vorresti avere le papille gustative nell'orecchio interno anziché in bocca.
E ovviamente non può mancare la presenza rassicurante della persona che al giorno d'oggi rappresenta il perfetto incastro professionale e umano con Sylvian: Ryuichi Sakamoto, che appare in diversi brani ovviamente seduto al suo pianoforte sospeso nella troposfera.
La tenue ma severa "Darkest Birds" ricorda che le armi usate in maniera spropositata difficilmente porteranno alla pace globale spesso ventilata ma mai effettivamente realizzatasi nei secoli. E si parla poi di guerre di religione in "The Banality Of Evil", con una frase che sintetizza il tutto: Il tuo dio, ai miei occhi, non ha l'aspetto di un dio
.
Splendida la prova di gruppo nel brano "A History Of Holes", in cui ci si danna per aver fatto di tutto e di più nella propria vita alla ricerca della perfezione interiore, ma ancora vi è nell'animo la sensazione che non si è fatto abbastanza. Brividi particolari perchè questa canzone riconduce immancabilmente al periodo dorato di "Forbidden Colours".
E a chiusura del disco, proprio la traccia che qualche tempo fa David Sylvian aveva accettato di cantare per Burnt Friedman, l'inquietante "The Librarian", che inizia con un'esortazione a tenersi bassi perché là fuori stanno sparando ad altezza d'uomo, e citazioni di un Allah mai stanco di accogliere fra le sue braccia un numero indefinito di martiri.
Concetti duri da digerire, immersi in una musica che fa da perfetto sfondo a questi tempi di grande confusione, in cui sai se esci di casa ma nessuno ti dà la certezza che ci tornerai. E nel dubbio, consiglio di portarsi dietro il lettore MP3 con "Snow Borne Sorrow"... è fondamentale morire con un sorriso, anche amaro, sulle labbra.
Alla prossima magia.
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