Marzo 1994, un mese come tanti in un'annata come tante... o forse no, visto che una mattina Trent Reznor si è alzato dal letto e ha scritto Closer. Perché? Cos'è successo? Come mai, caro Trent, hai deciso di partorire un pezzo che sembra scaturito dall'Area 51 e che non accenna a invecchiare? Si è parlato anche troppo di The Downward Spiral, capolavoro che ha definito in maniera indelebile i Nine Inch Nails, ma oggi è finalmente possibile parlarne avulsi da tanti fardelli, sia adolescenziali che contestuali. Senza bombardamenti ormonali o suggestioni emotive varie posso analizzarlo in modo distaccato, allo stesso modo in cui l'anima del suicida protagonista esamina i "se" nella traccia conclusiva, che consegna giustamente l'album alla storia. Insomma, che è un capolavoro già lo sapevamo, che fosse così attuale 24 anni dopo... un po' meno.

Chissà se Reznor fosse consapevole ai tempi di aver realizzato un album con vetro antiproiettile ai duri colpi del tempo: ho il sospetto che, data la maniacalità imperante dell'opera, lo fosse eccome. Una delle trappole più insidiose dei dischi "rock" che fanno ampio utilizzo di elettronica è proprio quello di esporre il fianco all'obsolescenza, e bisogna essere davvero molto bravi per muoversi in un campo che garantisca l'immunità temporale o addirittura un legittimo recupero retrospettivo. Si ritorna a Closer che, nonostante rimanga il singolo trainante e identificativo del sound della spirale, rimane oggi una belva inclassificabile che turba tutti: non è sufficientemente dark e morbosa per essere un culto underground, è troppo techno per essere adorata dai rockettari, ma troppo putrefatta per essere accettata dal club Kraftwerk, non ha i riff per diventare un inno generazionale, ma quel testo non ti esce dalla testa. E' anche spudoratamente pop, se si pensa, dimostrando anche la volontà del musicista nel voler compiacere un sottotesto easy listening annegato in un contesto aberrante, tra urla agghiaccianti, suoni meccanici e idee continue e geniali. Il disco è un calderone impazzito di risorse sonore che ammiccano a mondi antitetici, apparentemente inconciliabili, errore. Synth elettronici, riff psicotici, drum machine, accelerazioni inaspettate, sessioni ambientali degne di un film che denotano una sensibilità compositiva inaudita. Allo stesso modo il cantato è libero da ogni schema, tanto da permettersi il lusso di abbracciare formule stilistiche sempre diverse e caleidoscopiche, dai sussurri alle sessioni in rima. Non ci sono regole (o forse sì?).

In tanti, specie nell'industrial, hanno cercato il crossover ideale tra rock e la musica elettronica, ma quasi nessuno ha avuto l'intuizione di The Downward Spiral nel processo di contaminazione, ovvero l'analisi delle implicazioni e i contrasti dei rispettivi generi e le rispettive esigenze. Questa profonda consapevolezza, e la volontà di andare fino in fondo alla contorta questione, è la magia principale dell'album, che lo allontana da qualsiasi accusa di appropriazione modaiola. Scendiamo nello specifico: c'è un lato oscuro nella macchina, una venatura organica putrescente nella pulizia del silicio, ma allo stesso tempo la mente umana è sempre più alienata e meccanica. Non è infine secondario il fatto che The Downward Spiral sia sostanzialmente un concept album, quindi con temi ricorrenti, anche musicali. Come l'affiorare sovente di una sequenza in note ripetuta in Closer, Heresy, e addirittura la title track. Un disco che non suona come nient'altro, manifesto definitivo di questa creatura sciagurata chiamata umanità.

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