È da quasi un anno che non pubblico più una recensione sul sito. Pubblicata o meno, non ne ho scritta neanche una, ne consegue che la mia assenza è legata a questo mio “blocco del recensore”. Per rifarmi vivo in stato di grazia e assicurarmi qualche pollice alzato dovrei scrivere una recensione davvero originale e oggettivamente bella. Ma purtroppo oggi non voglio parlare di un album oscuro, recuperato dagli abissi dell’Oceano Musicale. Il disco a proposito del quale voglio esprimere il mio pensiero e che mi dà l’opportunità di denudare la mia anima è straconosciuto – perlomeno dai veri appassionati di musica, non il vicino di casa medio –. Considerato pietra miliare (a ragione), manifesto involontario di un’epoca, capolavoro di quel genere ibrido che prende il nome di industrial rock, termine che lo stesso Trent Reznor, one-man band, detesta e non riconosce come proprio, oggi voglio parlarvi di “The Downward Spiral” dei Nine Inch Nails.
Penso che ci siano pochi album capaci di causare un turbamento forte nell’animo dell’ascoltatore come “The Downward Spiral”. Quattordici i pezzi, mille le emozioni. Una corposa scarica elettrica nel cervello, un serpente bianco che striscia, glabro, verso di te che sei di spalle, e vieni colto alla sprovvista, che fin da subito senti il disagio, il veleno che promette di entrare prima o poi nella tua carne. Il serpente si avvicina, ma lento, senza fretta. Dentro di te si formano milioni di pensieri, la musica ti accompagna nel ripescaggio dei traumi. I pugni inferti dai climax e dai suoni artificiali sparati ad alto volume ti ricordano che sei vivo, e che il dolore esiste: è l’unica cosa vera.
L’autodistruzione ha inizio con “Mr. Self Destruct”, che apre concettualmente la storia di un nichilista arrabbiato con tutti e con tutto. L’ascoltatore non sa cosa aspettarsi mentre le sue orecchie accolgono quelli che sembrano i suoni di un uomo massacrato di botte. Si fanno più veloci, più urgenti. E poi la prima scarica elettrica. Sei entrato nella spirale anche tu! “Sono la voce dentro la tua testa e ti controllo/Sono l’amante nel tuo letto e ti controllo/Sono il sesso che ti assicuri e ti controllo/Sono l’odio che tenti di nascondere e ti controllo”. Voce, amante, sesso, odio … un climax di passione, repressa, che esplode poi nel ritornello in cui il signor Autodistruzione fa valere il proprio ruolo con decisione. Ma c’è la quiete dopo la tempesta. O almeno così pare. Reznor sussurra dei versi, languido, come se volesse rivolgersi alla parte più intima di te. E quando pensi che la violenza si sia dissolta a favore di un’inquietante, seppur quasi rassicurante, finale, ecco che riparte la macchina che ti maciulla, che maciulla te che sei l’imputato, come l’antieroe del disco.
Dopo il primo immenso atto, che dura solo quattro minuti, si susseguono, senza discontinuità, brani sempre più allusivi, sempre più insinuanti e cattivi. Il filo conduttore che collega buona parte dell’album è la semplice e lapidaria frase “Niente mi può fermare ora”, che ha il suo culmine in “Big Man With a Gun”, veloce e implacabile urlo, emesso a pieni polmoni, che lacera l’aria, che se ne sbatte delle superfici, per spingersi più in là. Nel mezzo (tra l’incipit e “Big Man”), un episodio più bello dell’altro: “Heresy” come devastante denuncia, come dichiarazione di indipendenza, indirizzata a coloro che vogliono indottrinare cani e porci. A proposito, un'altra parola che ricorre molto, soprattutto nella prima parte di “The Downward Spiral”, non a caso, è “pig”. Essa rimanda alle scritte sulle porte e sui muri della casa della coppia Polanski/Tate, quest’ultima uccisa dalla Family di Charles Manson, nel 1969. Sì, perché Reznor è legato nel profondo a questa vicenda, lo affascina a tal punto da scegliere la vecchia casa del delitto per installare il proprio studio di registrazione, appositamente per la mastodontica creazione che ha in mente. Un quarto di secolo dopo la tragedia, un ragazzo del Pennsylvania entra nella storia per crearne un’altra, per “ravvivare” il posto. Le atmosfere di cui beneficia “The Downward Spiral” sono spiegabili anche attraverso questa scelta di Reznor, che lo ha portato a registrare quanto di più claustrofobico e alienante potesse essere concepito. C’è il sesso, c’è la violenza, l’animalità. “Voglio fotterti come un animale, voglio sentirti da dentro” canta Reznor con una voce a dir poco terrificante, mentre la musica si fa più paranormale, “psichedelica”. Sfido chiunque a non avere i brividi ascoltando la melodia principale ai sintetizzatori che nella coda del brano si dissolve in un’ulteriore melodia, ancora più soffocante, che culmina a sua volta in quelle poche battute al piano, disturbate solo da qualche rumore industriale.
Con “Closer” sembra si chiuda un capitolo, prontamente sostituito da una sezione centrale senza esclusioni di colpi, altrettanto opprimente, per non dire fatale: il personaggio della storia è ormai dentro al vortice, alla spirale e si mortifica sempre di più, si distrugge per non sentirsi oggetto, ma artefice. Il deturpatore di “Ruiner” ha paura, ma per nasconderla si fa del male, urlando la sua qualifica, appunto, di deturpatore. Ma non si tratta solo di questo: la spirale lo costringe al cambiamento. Lui deve diventare qualcos’altro, rifiuta il passato. Mai più schiavo, mai più compromessi! “Do colpi al mio macchinario, è parte di me, è dentro di me/Sono intrappolato in questo sogno, mi sta cambiando, sono in divenire/Il me che conosci ha avuto qualche ripensamento/Lui è coperto di croste ed è distrutto e dolorante/Il me che conosci non cambia idea così facilmente/Quella parte di me non c’è più”. L’unica cosa che il personaggio del disco accetta di cambiare è la sua propensione a cambiare idea per accontentare gli altri. Quindi si umilia, si distrugge, perché il rumore nella sua testa lo vuole morto. Ma a un certo punto ha un ripensamento, dice a sé stesso “Non voglio questo”, ma è inutile, perché il suo alter ego lo riporta alla “sragione”, in “Big Man With a Gun”, che, come detto sopra, ha il valore di un urlo disperato di un pazzo che segue il rumore, la voce nella sua testa, che gli dice di sparare, sparare, sparare.
Un breve strumentale anticipa l’agghiacciante “Eraser”, in cui l’antieroe supplica di essere eliminato, cancellato dalla faccia della terra. Il serpente non ha smesso neanche per un attimo di avvicinarsi al suo corpo tremante e alienato al resto del mondo. “Reptile”, uno dei pezzi più drammatici della storia della musica, è l’ultima spiaggia, oltre la quale non c’è più speranza. Il ricordo di una lei, le cui viscere sono nutrite dal seme di mille altri uomini, dà il colpo di grazia al protagonista, che, ritrovatosi solo, umiliato, scoprendo di aver vissuto una bugia, riconosce la proprie impurità, che decide di annientare nel solo modo possibile, nel solo modo che concepisce: il suicidio. “Non avrebbe mai creduto che fosse così facile/Si è puntato la pistola contro la faccia/Bang!/(così tanto sangue da un buco così piccolo)”. In fin di vita l’antieroe, ucciso dall’esistenza, ucciso dall’indifferenza, rilascia la sua ultima confessione: “Mi sono fatto male oggi/Per vedere se sento ancora/Mi concentro sul dolore/L’unica cosa che è reale”. “Hurt”, summa di tutto l’album, dopo tredici pezzi di violenza pura (a parte “A Warm Place”) che hanno devastato l’ascoltatore nel profondo, lo spiazza, lo lascia interdetto, ancor più sfinito, come dopo un orgasmo doloroso. La calma innaturale dell’arpeggio su cui si basa “Hurt” è l’essenza di tutto. Qualche riverbero dell’oscuro passato appena dissoltosi fa spazio all’urlo strozzato, pieno di lacrime, di un uomo che lascia tutto, il suo impero di sozzura. Il serpente ora è pronto ad ingerirlo, e l’ultima, inaspettata, scarica elettrica segna questo passo, il suo balzo.
“The Downward Spiral”, dato alle stampe nel 1994, è forse l’ultimo grande concept album della storia del rock, l’ultimo intenso sforzo di una generazione agonizzante. Il Woodstock ’94 consacrerà i Nine Inch Nails come uno dei progetti più seminali, viscerali, della fine del Millennio. Reznor non sarebbe mai più riuscito a comporre un lavoro di tale intensità. Solo il successivo “The Fragile” può essere considerato un classico, sulla falsariga, ma pur sempre un piccolo capolavoro. Per quanto mi riguarda, quando ascolto “The Downward Spiral”, ho poca fiducia, sia nell’umanità, sia nel fatto che Reznor un giorno creerà qualcosa che ne eguagli la grandezza. Poche opere sono così vere, pure nella loro eclatante impurità. La macchina che si unisce all’uomo, un connubio perfetto si concretizza tra i solchi di “The Downward Spiral”.

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